La traduzione moderna e aggiornata del più conosciuto: «Chi volete libero, Barabba o Gesù?», potrebbe anche essere: «Chi volete ancora, D’Alema o Berlusconi?», il cui dilemma lasciamo al fondo del vostro cuore, sapendone peraltro in anticipo la risposta. E la risposta è B. senza esitazioni, anche da una parte (cospicua?) della sinistra.
Come per incanto, nel pieno, pienissimo garbuglio del centro-destra, si è appalesato ancora lui, il nostro caro, vecchio Massimo, per raccontare la via d’uscita al berlusconismo, con quel tanto di severo distacco che l’uomo porta con sé. Lo testimonia un’intera pagina su Repubblica, in cui il presidente del Copasir traccia la linea del Piave: «Mi appello a tutte le opposizioni: concentriamo i nostri sforzi su questa campagna elettorale, riduciamo al minimo le polemiche. E stabiliamo una vera e propria “disciplina repubblicana”: ai ballottaggi si marcia uniti, senza se e senza ma».
C’è un primo elemento di suggestione, che sottoponiamo alla vostra attenzione. Le parole pronunciate da Massimo D’Alema dovevano appartenere al leader del partito, e presumibilmente leader della futura coalizione che sfiderà il Cavaliere alle elezioni nazionali. Queste parole, in un momento così delicato, erano di “proprietà” di Pier Luigi Bersani. Perché se ne appropria D’Alema, solo per un senso di appartenza, perché immagina di avere ancora un ruolo importante all’interno della società politica, per non sentirsi un malinconico pensionato di questa epoca, o perché – e sarebbe grave – pensa ancora di poter etero-dirigere il segretario del “suo” Partito Democratico?
Seconda suggestione: il nome di D’Alema si accompagna invariabilmente a molte leggende metropolitane, ma a una sola, incontrovertibile certezza: ch’egli porti bene, benissimo al nemico di sempre Berlusconi. Non tanto, o non solo, perché tratti di arroganza comune definiscono un’aderenza neppure tanto sottile tra i due personaggi, quanto, soprattutto, per via di un parallelismo un filo provinciale che ha sempre portato l’ex presidente del Pd a inseguire (invidiare?) il compare politico nelle sue pieghe più mediocremente borghesi. Per cui, alla fine, Massimo D’Alema non era più il comunista di un tempo, e fino a qui benissimo, ma neppure il vero riformatore che avrebbe dovuto essere.
C’è poi un punto, a nostro avviso centrale, che D’Alema non percepisce più o che fa finta di non percepire, rinchiuso nel suo bastare a se stesso, e che qui si può condensare in una sola domanda: quanto è consapevole del suo gradimento all’interno della società? Come esempio, prendiamo due categorie: i cinquanta-sessantenni e i venti-trentenni.
I primi sono perfettamente consapevoli di ciò che D’Alema è stato. Ne hanno apprezzato la lucida intelligenza, credendo che fosse tale. Ne potevano persino condividere le arroganze, legate com’erano a una lotta senza quartiere con un monopolista dei bassi sentimenti come il Cavaliere. Hanno creduto che una forma egocentrica e saccente della politica avesse nobiltà di appartenenza su questa povera terra. Insomma, gli hanno consegnato le chiavi del consenso (ma non per via elettorale) più per una visione imperativa delle situazioni che per mera convinzione sentimentale. Naturalmente si sentono traditi e non ci cascherebbero più.
I ventenni (e anche i trentenni) di oggi sanno poco di tutto questo (magari ne hanno letto un po’ o qualcuno gli ha raccontato) e non hanno la minima declinazione con il mondo di Massimo D’Alema. Soprattutto, mal faticherebbero a digerirne le imposizioni politiche, calate da quell’alto che pare sempre il punto più alto del mondo, dal quale il santone Massimo lascia cadere le sue profetiche visioni. A questi giovani, che vogliono scegliere da che parte stare, che intendono ricercare dei “luoghi” politici ben identificati sotto cui ripararsi, D’Alema oggi dice: mettiamoci tutti insieme, purchessia, destri, sinistri, destri di centro, destri di sinistra, riformatori, estremisti, traccheggiatori di professione, pur di battere l’Orco.
Una bella prospettiva, davvero. Un nuovo ’68 all’amatriciana.