La Grecia è fallita. Dimentichiamoci gli otto miliardi

La Grecia è fallita. Dimentichiamoci gli otto miliardi

La Grecia ristrutturerà il suo debito. Ormai mancano solo gli ultimi dettagli, ma è certo che Atene non può più sopravvivere nel suo attuale stato. Troppo elevati i rendimenti dei titoli di Stato, troppo lento il consolidamento del debito pubblico, troppe le pressioni tedesche a una veloce risoluzione capace di far voltare pagina ad Atene. A patirne sarà soprattutto chi finora ha versato al Pireo le quote dei 110 miliardi di euro dell’intervento di Ue, Banca centrale europea (Bce) e Fondo monetario internazionale (Fmi). Fra questi, l’Italia. E dopo gli oltre 8 miliardi di euro dati alla Grecia nei mesi scorsi, si prospetta una nuova spesa per il Tesoro. Secondo un calcolo di Goldman Sachs, il nostro Paese dovrà dare almeno 60 miliardi di euro a Bruxelles per la nascita del fondo salva-Stati European stability mechanism (Esm), operativo dal 2013. Erogazioni che, considerata l’attuale crisi dei debiti sovrani, assomigliano sempre più a una mera donazione.

Le tensioni sono ricominciate la scorsa settimana. Nelle sale operative è tornata la voce di un imminente ristrutturazione del debito sovrano di Atene. Il debito pubblico è al 152% del Prodotto interno lordo (Pil), mentre il deficit per il 2010 veleggia oltre quota 10 per cento, una cifra insostenibile dopo i tagli che il Governo di George Papandreou ha dovuto compiere nell’ultimo anno. Anche per questo il premier ha dovuto varare un piano di austerity da oltre 30 miliardi di euro. Nemmeno questo è bastato. E ancora oggi il governatore della Banca di Grecia, George Provopoulos, ha cercato di tranquillizzare i mercati. «Abbiamo chiarito già nello scorso ottobre che quella della ristrutturazione non è un’opzione praticabile, dato che potrebbe avere conseguenze catastrofiche». Eppure, gli investitori non gli hanno creduto.

Sul mercato azionario la giornata di Atene è stata tormentata. La Borsa è arrivata a perdere oltre 3,5 punti percentuali, affossata dai titoli bancari, considerati le prime vittime in caso di ristrutturazione del debito. Ma oltre alle piazze primarie, anche quelle secondarie hanno registrato momenti di agonia. I Credit default swap (Cds), i derivati che assicurano contro il fallimento di un asset, sono schizzati subito ai massimi storici. Sulla piattaforma di Markit sono stati toccati i 1.278 punti base, un livello superiore ai giorni neri del Pireo, quando venne approvato il piano di sostegno congiunto Ue, Bce e Fmi da 110 miliardi di euro. Era il 2 maggio 2010 e i Cds erano a quota 650 punti base. Ora sono il doppio. Questo significa che per assicurarsi contro l’insolvenza di un bond quinquennale emesso dalla Grecia del valore di 10 milioni di dollari, occorre 1,278 milioni di dollari. Nella sola giornata di ieri il valore è aumentato di oltre 100 punti base, uno dei maggiori incrementi intraday mai registrati nell’Eurozona. In sostanza, il default è quasi arrivato.

Analogo il comportamento dei differenziali fra i rendimenti dei titoli di Stato di Atene e i bund tedeschi, storico benchmark di solidità. Il bond con scadenza a due anni ha superato quota 20%, un livello mai sperimentato per un Paese dell’Eurozona. Le emissioni con termine decennale sono con rendimenti oltre il 14%, con un trend in costante deterioramento. Allo stesso modo, il contagio si è avuto anche per le altre economie europee in difficoltà. Dublino e Lisbona, ma anche Madrid e Roma, hanno visto innalzarsi i propri rendimenti sui bond governativi. Colpa della situazione d’incertezza globale. Sì, perché in una giornata già molto pesante sui mercati finanziari dell’Eurozona, è arrivata la tegola di Standard & Poor’s sugli Stati Uniti. La società di rating ha infatti rivisto l’outlook statunitense, portandolo a negativo. La notizia ha fatto schizzare la quotazione dell’oro a 1.500 dollari l’oncia, ennesimo record del metallo giallo.

Il quadro più probabile finora è quello della ristrutturazione. Il taglio previsto ai rimborsi degli obbligazionisti sarà, secondo un report di Lombard Street Research, intorno al 60-70 per cento. «Non vediamo altre soluzioni per porre fine a questa tragedia greca», spiegano gli analisti della casa d’affari londinese. Questa soluzione potrebbe però costar caro soprattutto a Francia e Germania, fortemente esposte al debito ellenico. La Banca dei regolamenti internazionali (Bri) ha calcolato che al 31 dicembre 2010 Atene pesava su Parigi per 83,1 miliardi di dollari, mentre Berlino per 65,4 miliardi. Troppo in caso di ristrutturazione.

Grecia, Irlanda e Portogallo sono già considerate insolventi dalle banche. L’ultima che lo lascia intendere è Société Générale, il colosso francese, che oggi ha parlato apertamente di ristrutturazione del debito della Grecia. «Probabilmente sarà ritardata fino al 2013 o forse oltre», spiega la banca transalpina. Diversa l’idea di Morgan Stanley. La banca americana già sei mesi fa consigliò ai suoi clienti di chiudere le proprie posizioni sulla Grecia. Erano i tempi in cui Atene aveva ancora un rating superiore a quello junk, spazzattura. Tuttavia, i primi segnali della caduta ellenica si verificano quando, un anno fa, il Governo revisionò il deficit 2009 al 13,5% del Pil dal precedente 12,7 per cento. Erano i tempi della scoperta dei magheggi contabili compiuti dalla Grecia in collaborazione con Goldman Sachs, capaci di ridurre agli occhi di Eurostat il reale disavanzo del Paese.

In tutta questa girandola di dichiarazioni, smentite e indiscrezioni, per ora c’è solo una certezza. A patirne di più potrebbe essere proprio l’Italia. Con oltre 8 miliardi di euro forniti alla Grecia, Roma è uno dei maggiori prestatori. Sebbene la l’esposizione non sia al pari di Francia e Germania, 6,8 miliardi di dollari, il rischio di un’esplosione di deficit e debito è concreta. Specie perché i fondi allocati per il risanamento dei conti pubblici di Atene sono di fatto già perduti. Se a questo sommiamo che per il nuovo fondo salva-Stati Esm, che entrerà in vigore dal 2013, l’Italia dovrà sborsare almeno 60 miliardi di euro, pari alla quota di partecipazione nella Bce, il quadro non è roseo per il nostro Paese. L’epidemia della crisi dei debiti sovrani finora ha solo lambito l’Italia. C’è da sperare che continui a essere così. 

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