Il crudele assassinio di Vittorio Arrigoni, l’attivista italiano ucciso la scorsa notte dai gruppi qaedisti nella Striscia di Gaza, realizza un cortocircuito difficile da sciogliere. E oggi, anche difficile da raccontare.
Arrigoni era un volontario occidentale come se ne incontrano tanti, in Israele e nei Territori occupati. D’estate o durante le festività natalizie, in particolare, ci sono i picchi, ma il flusso non si arresta mai del tutto durante l’anno. La mappa delle Ong che li portano in Israele – “in Palestina”, nel vocabolario politico unico che adottano – è ampia e complessa, difficile da ricostruire. Sono giovani e meno giovani, e hanno una convinzione: Israele è responsabile, anzi colpevole di tutto, i palestinesi sono solo e semplicemente vittime. Durante il giorno i volontari occidentali stanno nei campi profughi attorno a Ramallah, a Betlemme, a Jenin. I più coraggiosi fanno stanza a Gaza. La sera si trovano a Gerusalemme est, nella deliziosa veranda del Jerusalem Hotel, a fumare i narghilè e a raccontarsi tutto il male – ed è tanto – di cui ogni giorni si fanno parte come fosse un male loro. E’ un mondo strano: agli idealisti militanti di un mondo migliore si mischiano i professionisti della solidarietà internazionale. Il fatto di essere remunerati o meno per ciò che fanno non segna il discrimine esatto tra i due gruppi.
Di solito evitano di relazionarsi all’altra metà del mondo, non conoscono e non frequentano israeliani. Tendono a chiamarli “sionisti”, come si usa nell’internazionale anti-sionista. I più sono in buona fede, e come spesso capita alla buona fede scivolano nel manicheismo: quando il mondo si divide in buoni e cattivi c’è sempre qualcosa che manca all’analisi. Il mondo palestinese che incontrano ogni giorno è un mondo offeso: bambini che crescono sotto l’ombra soffocante di un muro, donne incinte respinte ai check-point, anziani che piangono i figli. A poco vale testimoniare con la presunzione o la professionalità del cronista degli incontri con gli uomini di Hamas o dello Jihad islamico. O, prima ancora, delle ruberie degli uomini di Arafat. Nel mondo dei professionisti della solidarietà filopalestinese la complessità non è ammessa: proprio come capita in guerra.
Poi succede, tragicamente, che questi volontari muoiano. Quello di Vittorio non è il primo caso, e non sarà purtroppo l’ultimo. Tra israeliani e palestinesi, del resto, una guerra dura da oltre 60 anni, e all’interno del fronte palestinese la guerra civile serpeggia e a tratti esplode da un decennio. Gli islamisti di Hamas governano, le vecchie élite di Arafat sono ancora ai vertici dell’Anp, e le infiltrazioni di Al Qaeda, delle milizie jihadiste finanziate dall’Iran passando per la Siria e il Libano spingono per il loro posto al sole. Può capitare, passando per Gaza, di finire tritati da meccanismi complessi, che vieterebbero il manicheismo e le semplificazioni. E invece, al dolore per la morte di Vittorio Arrigoni, si aggiunge l’imbarazzo e il disgusto per chi punta il dito contro la «responsabilità morale di Israele e dell’Italia», come dice l’ong per cui Arrigoni lavorava a Gaza.
Peggio ancora delle solite dietrologie antisemite, secondo cui Vik sarebbe stato ucciso per volere del Mossad, ci si trova a condannare una responsabilità “morale”: tanto eterea che non c’è neppure bisogno di dimostrarla.
In un giorno di cordoglio e di commozione, ci prendiamo la responsabilità di ricordare la complessità delle cose. Al Medioriente, a Israele, ai palestinesi non servono atti di fede, ma sforzi di ragione. Non serve l’empatia dei tifosi che stanno di qua o di là ululando come capita alle tifoserie.
La morte di Vik è l’ennesima occasione per riflettere sulla complessità della realtà mediorientale. Un’occasione di cui, sia chiaro, avremmo fatto volentieri a meno.