Sta nascendo un G5 e come i grandi già litigano

Sta nascendo un G5 e come i grandi già litigano

Il China Center for International Economic Exchanges prevede che, nei prossimi 20 anni, il Pil dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) passerà da un sesto dell’economia mondiale nel 2010 a quasi la metà (il 47%) nel 2030. Basta questo per giustificare l’importanza delle discussioni che Dilma Rousseff, Dmitry Medvedev, Manmohan Singh, Hu Jintao e Jacob Zuma hanno avuto ad aprile a Sanya, nell’isola di Hainan a sud della Cina. Soprattutto perché non è detto che l’agenda del G8 di Deauville della settimana prossima sarà altrettanto ambiziosa.

È stato il terzo vertice dei Brics, dopo Ekaterinburg nel 2009 e Brasilia nel 2010, e il primo cui è invitata l’Africa del Sud, premiando la determinazione di Zuma che nel 2010 ha visitato ciaascuno dei Bric. L’allargamento dimostra, se ce ne fosse il bisogno, che i Brics non sono soltanto un foro economico – effettivamente Cina, Brasile, India e Russia sono insieme ai G7 le 11 principali potenze economiche in termini di PIL – ma anche politico. È il primo grande vertice internazionale presieduto dalla Cina – una circostanza che mostra il rilievo che Pechino assegna ai Brics – come forum dove coordinare determinate posizioni da presentare poi nel G20. Certo se i Brics assumono le vesti di un G5 alternativo al G8, diventa più complicato spiegare come il presidente Medvedev possa frequentare entrambi i vertici e firmarne le conclusioni, anche quando esse non sono vicendevolmente coerenti. Nel suo discorso a Sanya, Hu Jintao ha accusato i paesi che “vendono i cosiddetti valori universalmente accettati” – che in plain English sono i G7 – di minare le fondamenta del sistema internazionale.

Di cosa si è discusso? Essenzialmente di tassi di cambio, materie prime e crisi libica. A parole i Brics sono tutti favorevoli a una riforma del sistema finanziario internazionale che riduca la centralità del dollaro come valuta di riserva, dando agli Stati Uniti l’esorbitante privilegio di condurre la propria politica economica senza preoccuparsi di come finanziare i propri disavanzi interni ed esterni. Una proposta concreta è di includere lo yuan tra le valute che determinano il valore degli Special Drawing Rights (Sdr, la valuta virtuale del Fondo Monetario Internazionale). Difficile però muoversi in questa direzione, che nei fatti equivale ad affiancare come valuta globale al dollaro non solo l’euro e lo yen, che già compongono i Sdr, ma anche lo yuan, senza permettere agli stranieri di accedere liberamente ai mercati finanziari cinesi. Il Segretario al Tesoro americano, in occasione del seminario di alto livello convocato a Nanchino dalla presidenza francese del G20, ha anche sostenuto che per includere la propria valuta negli Sdr, un paese deve concedere l’indipendenza alla propria banca centrale. La Cina ha però mostrato di non essere disposta a derogare al suo approccio prudente in materia di flessibilità cambiaria e di controllo politico sulla Banca della Cina Popolare, rifiutando qualsiasi riferimento alla convertibilità della propria moneta.

La Cina è ormai il principale partner commerciale di ciascuno degli altri Brics  e uno dei principali investitori esteri (almeno in termini di flussi recenti, dato che lo stock accumulato dai paesi occidentali irmane molto più consistente). E con ciascuno di questi partner la Cina registra anche un avanzo commerciale, importando materie prime ed esportando prodotti manufatti. Da ciò le crescenti tensioni: già nel 2006 l’allora Presidente sudafricano Thabo Mbeki mise in guardia l’Africa dal rischio di una relazione “neocoloniale” con Pechino, mentre è stato il ministro delle Finanze brasiliano a lanciare per primo, lo scorso settembre, un grido d’allarme sulla guerra delle monete. Non certo a caso, dato che il real si è fortemente apprezzato negli ultimi anni, mentre per ragioni diverse dollaro e yuan sono rimasti a livelli più competitivi. Manteiga si è ben guardato dal chiarire chi, tra Stati Uniti e Cina, sia più colpevole per questo stato di cose, se cioè la responsabilità sia del QE2 della Fed o piuttosto della politica cinese di mantenere il tasso di cambio ad un livello che continua a favorire l’export. Ma è difficile pensare che il Brasile (ma anche il Sudafrica, i cui mercati finanziari sono anch’essi estremamente sofisticati ed aperti) sia disposto a sottoscrivere pienamente le posizioni della Cina, che per il momento si accontenta di promuovere l’uso delle cinque monete nazionali per il commercio intra-Brics.

Altro argomento di discussione, le materie prime. Per la Francia la riforma dei mercati delle commodities è una delle priorità del G20. La volatilità dei prezzi è probabilmente aumentata negli ultimi anni, anche se non c’è un accordo tra gli specialisti sulla sua misurazione e ancora meno sulle sue cause, e in particolare sul ruolo degli operatori finanziari (quelli che erroneamente ma significativamente si ama definire come gli speculatori). Quello che è sicuro è che le materie prime sono un asset class che si muove in funzione dell’andamento della finanza globale (liquidità e tassi di cambio) e che la sicurezza alimentare, che a sua volta è legata alla volatilità dei prezzi, è una questione drammatica in molte parti del mondo. Soprattutto, l’instabilità politica che l’aumento dei prezzi dei prodotti agricoli e alimentari potrebbe provocare è l’incubo delle autorità in tutti i paesi in via di sviluppo e soprattutto in Cina. Le rivolte nei paesi arabi, in cui questi fattori hanno coagulato tensioni (la corruzione e le ineguaglianze) che stavano bollendo in pentola da tempo, è l’esperienza la cui ripetizione la leadership cinese vuole evitare ad ogni costo.

Anche in questo caso le posizioni dei Brics sono state finora diverse. Come ridurre la volatilità dei prezzi delle materia prime, soprattutto agricole, è appunto tutt’altro che ovvio. La Russia, ma anche l’India e la Cina stessa (nel caso delle terre rare, che è certo in parte diverso, ma è comunque anch’essa una materia prima), hanno fatto ricorso nel 2010 a restrizioni alle esportazioni per cercare d’isolare i mercati domestici dalle fluttuazioni internazionali. Alcuni paesi industrializzati, tra cui la Francia, non sembrano essere insensibili al fascino di forme di tassazione e d’intervento diretto che mettano della “sabbia” negli ingranaggi dei mercati, una sorta di Tobin Tax per le materie prime.

Completamente contrario a ogni intervento di questa natura è invece il Brasile, che ormai da anni scala a gran ritmo le classifiche della produzione di qualsiasi tipo di materia prima, che sia agricola o mineraria – ormai anche il petrolio, senza dimenticare i biofuels. Al contrario Brasilia è in prima fila nel sostenere la liberalizzazione del commercio agricolo internazionale, un atteggiamento solo parzialmente condiviso da Delhi. Il Brasile guarda poi con sospetto all’attivismo cinese, e in minor misura indiana, nell’acquisto o affitto di grandi proprietà terriere in altre regioni, compresa l’America Latina, da destinare alla produzione di derrate agricole. Proprio in questi mesi il Brasile, ma anche l’altro membro sudamericano del G20, l’Argentina, si apprestano ad introdurre nuovi limiti agli investimenti fondiari di stranieri. A complicare ulteriormente le cose concorre infine la campagna che il Brasile sta sostenendo a favore della candidatura di un proprio funzionario alla carica di Direttore Generale della FAO.

Che la situazione in Libia concentri l’attenzione delle cancellerie dei Brics non è strano, ma è nondimeno significativo che un gruppo che in passato riservava le proprie discussioni a temi economici, finanziari e commerciali si sia avventurato in un terreno nuovo, e abbastanza minato. Per una coincidenza fortunata, in questo momento tutti i Brics seggono al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, di cui Cina e Russia sono membri permanenti, mentre gli altri ambiscono ad avere identico status. Dopo aver tutti votato a favore del congelamento dei beni libici all’estero, in febbraio, soltanto il Sudafrica ha approvato la risoluzione 1973 e l’azione militare a difesa dei ribelli. Già questo è sufficiente per pensare che al vertice le posizioni dei cinque leader siano state diverse. A maggior ragione dato che sia Dilma sia Medvedev stanno cercando di smarcarsi da quelle dei loro predecessori, Lula e Putin, che condividevano con Pechino la filosofia della sovranità e del non-intervento (tranne che in Georgia nel caso di Mosca, ovviamente). Alla fine è venuto fuori un testo molto diplomatico, che invita a continuare le discussioni ed esprime apprezzamento per l’azione dell’Unione Africana – che ha inviato a Tripoli e Bengazi un gruppo di leader capitanati proprio da Zuma e che comprende anche un presidente dalla credenziali abbastanza dubbie, il congolese Denis Sassou Nguesso, al potere dall’ormai lontanissimo 1979.

Insomma, quello di Sanya è stato un vertice importante, tanto che si è discusso anche dell’istituzionalizzazione del Brics e della creazione di un segretariato permanente – un passo che né il G7/G8 nel passato né il G20 attualmente hanno deciso di compiere. I membri del Boao Forum for Asia – un gruppo di importanti ex-politici e uomini d’affari, tra cui qualche raro occidentale come Jean-Pierre Raffarin – sono stati invitati per una sessione. Rispetto al passato, è chiaro che le ambizioni di questo consesso sono sempre maggiori, ma proprio per questo non è per nulla scontato che venga raggiunto un consenso. Come per tutti gli altri G, anche questo (che peraltro nessuno è disposto a chiamare G5 per paura di offendere chi come ne è escluso) dovrà costruire la propria credibilità sul campo, dimostrandosi capace di discutere e prendere decisioni importanti su temi spinosi, e non solo per fare belle foto di leader sorridenti su sfondi soleggiati e idilliaci.

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