Elezioni in Perù, un Sudamerica con più mercato e meno sinistra

Elezioni in Perù, un Sudamerica con più mercato e meno sinistra

Questa domenica i peruviani eleggeranno al ballottaggio il loro nuovo presidente. Uno dei due candidati, una donna, è molto a destra. L’altro, fino a non molto tempo fa era stato adottato dalla sinistra, ma poi ha cambiato rotta. Entrambi sono populisti e hanno una voglia tale di venire eletti che non fanno che aggiustare i programmi per raccattare i voti dei peruviani moderati, la maggioranza. 

Quella di destra, in leggero vantaggio nei sondaggi, fa di cognome Fujimori ed è la figlia dell’ex presidente Alberto che, dopo avere governato il Perù per due mandati (e avere realizzato un autogolpe per garantire la longevità del suo governo), sconta oggi una condanna a 25 anni per violazione dei diritti umani. Keiko, la candidata, ha 35 anni, capelli neri, i tratti giapponesi di famiglia, è madre di due figlie e moglie dell’italoamericano Mark Vito Villanella, un fan sfegatato del fujimorismo. Il loro ménage, invidiabile, fa sognare come una soap opera. Figlia adorante del papà criminale, Keiko ha annunciato a suo tempo (salvo smentire più tardi), che lo grazierà se andrà al potere.

Anche l’altro candidato, Ollanta Humala, 48 anni, è figlio d’arte, ma da quando ha cominciato a correre per la presidenza ha lasciato per strada i radicali insegnamenti del padre Isaac, ultranazionalista fondatore di un movimento xenofobo e impegnato da anni nel riscatto del millenario impero inca. Adesso, i familiari di Ollanta accusano quest’ultimo di aver venduto l’anima per sete di potere, ma è certo che la zavorra familiare era troppo pesante per uno che negli ultimi anni ha cercato di ricostruirsi una verginità con un programma moderato in cui il nazionalismo è parecchio sbiadito.

L’attuale candidato della coalizione Gana Perú è stato, infatti, un tenente colonnello dell’esercito, ultranazionalista e antisistema, e autore di un attentato contro il regime di Fujimori. Ma oggi è un signore elegante che ha preso le distanze da Hugo Chávez (il cui endorsement lo aveva penalizzato nelle elezioni del 2006), e ha dichiarato che i suoi alleati di riferimento sono il Brasile e gli Stati Uniti («Paese fratello») e il suo modello l’ex presidente brasiliano Lula. Tanto che perfino l’ultraliberista Mario Vargas Llosa ha finito per appoggiarlo, ma solo dopo che Humala ha garantito che non limiterà la libertà di stampa e non nazionalizzerà le imprese. Il programma del candidato, che ha già subito vari ribaltoni e che – assicura lui – accetta suggerimenti da chiunque, promette la lotta alla disuguaglianza ma non mette in discussione l’assetto economico molto pro-mercato che ha garantito al Perù una crescita dell’ 8,9 % nel 2008 (e dell’8% nel 2010) ma i cui effetti hanno avvantaggiato poco i poveri, la cui percentuale è scesa appena dal 34 al 31 per cento. Humala promette vantaggi per questi ultimi e un vasto programma di pensioni. 

Pure Keiko dichiara di avere a cuore la sorte dei desfavorecidos, ma non spiega in che modo conta di migliorarla. Oscilla tra la devozione filiale e il desiderio di smarcarsi da quel bagaglio imbarazzante del padre in galera («il miglior presidente che abbia avuto il Perù», dichiara salvo riconoscere che era, in effetti, un pochino autoritario). In realtà, il suo sforzo di elaborazione politica si è limitato a mettere insieme gli scampoli del fujimorismo in quel suo movimento Fuerza 2011 con cui rischia di andare al potere. Benché parli di cambio, il suo programma non si schioda dallo status quo. Dalla sua parte stanno gran parte degli imprenditori che vedono ancora dietro Ollanta l’ombra di Chávez, e i nostalgici di Fujimori. A votare Humala saranno invece molti delle classi basse, gli intellettuali e chi ha paura del ritorno del chino (il soprannome dell’ex presidente), sia pure nella veste addolcita della giovane Keiko, una persona così perbenino che persino il presidente dell’Ecuador, Rafael Correa, l’ha dichiarata molto affabile, lodandone i modi civili nella campagna elettorale.

Benché sia ovvio che una Fujimori al potere sarebbe un elemento di tensione nella regione, non sembra che Correa né il suo omologo boliviano Evo Morales, che fanno parte della cordata più radicale della sinistra latinoamericana, siano particolarmente allarmati dalla prospettiva (è vero però che Humala sarebbe un buon alleato nella richiesta della restituzione dell’accesso al mare che la Bolivia perse con il Cile durante la Guerra del Pacifico). «Le relazioni con il Perù sono invidiabili e si manterranno eccellenti, che vinca Ollanta Humala o Keiko Fujimori», ha ribadito il presidente ecuadoriano, che ha di recente elogiato l’attuale presidente peruviano Alan García, non certo un’icona della sinistra: «È una persona molto cara. È uno dei presidenti più brillanti dell’America Latina, non condivide la nostra ideologia ma ha mantenuto una relazione di grande rispetto» (per inciso, il traffico commerciale tra i due Paesi è cresciuto in dieci anni del 635%).

Anche i rapporti economici e diplomatici con il Brasile sono eccellenti. Secondo l’economista Rubens Ricupero, la sintonia ideologica è importante ma non necessaria per raggiungere l’integrazione, quel Santo Graal a cui l’America Latina aspira da tempo. Basta si diano agli investimenti garanzie sul lungo termine. Un passo verso la integracion sarebbero gli scambi commerciali, in crescita esponenziale, tra i Paesi del Continente, che ad eccezione del Venezuela stanno registrando crescite economiche sorprendenti.

Nel frattempo, la sinistra radicale dà segnali di crisi. Basti vedere la recente débâcle del Venezuela, la risicata vittoria dei referendum proposti da Rafael Correa e la crisi di Evo Morales con i sindacati. Il decollo del Brasile (e i suoi successi nella lotta alla povertà e nell’abbattimento delle disuguaglianze) ha imposto il riformismo moderato di Lula rispetto al radicalismo di Chávez , che a sua volta smette di essere il bambino terribile del Sudamerica. Per esempio adesso è in buoni rapporti con la Colombia, l’ex vicino-nemico, e il merito del ricompattamento non va attribuito soltanto all’appeal di Juan Manuel Santos, presidente da dieci mesi e giudicato il capo di Stato più simpatico del Sudamerica. Per inciso, Santos ha dichiarato che i rapporti con il Perù vanno a meraviglia e forse con Ollanta potrebbero cambiare leggermente (data la visione nazionalistica del candidato e di possibile protezione rispetto al libero mercato), ma non ha motivi di pensare che si guasterebbero.

L’unica pedina incerta resta dunque il Cile, visto che i due Paesi sono ai ferri corti per una questione di confini marittimi su cui sta decidendo il Tribunale dell’Aja. Ollanta, che è pur sempre un nazionalista, ha dichiarato che quel Paese dovrebbe chiedere scusa per le zone «razziate» nell’Ottocento, durante la Guerra del Pacifico. Sebastián Piñera, presidente cileno di centrodestra, ha fatto sapere a sua volta che alla presidenza del Perù preferirebbe che ci finisse Keiko. Ma Keiko, che non perde occasione per mostrarsi civile, gli ha chiesto di rimando di non immischiarsi.  

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