Era la primavera ribollente del 1993, in piena Tangentopoli. Con grande scandalo dei benpensanti, la Lega sventolava il cappio della forca nell’aula di Montecitorio, a simbolo della protesta di popolo contro la “casta” della politica della Prima Repubblica. Poi, però, nel segreto dell’urna e in quella stessa aula, la Lega votò contro l’autorizzazione a procedere nei confronti di Bettino Craxi. Salvando di nascosto il “Cinghialone”, ma per una volta sola, l’astuto Bossi (“il più levantino dei nordici”, secondo quello che racconterà il professor Miglio) scelse insieme di far crescere l’indignazione dell’opinione pubblica e di esasperare il clima politico anche per affrettare il tempo di nuove elezioni.
Quella Lega, giovane di vita istituzionale e portatrice di un rustico “profumo di nuovo”, era in Parlamento una falange macedone compatta e inscalfibile che seguiva ciecamente il suo padre-profeta. Allora quei 55 deputati votarono senza incertezze e mantenendo il segreto, mentre pubblicamente il Carroccio si scagliava contro il consociativismo e la “vecchia politica” corrotta e tangentara.
Diciotto anni più tardi, invece, la Lega è partito di governo e sente sulla sua pelle il richiamo di una base indignata e delusa dai magri risultati fin qui ottenuti da un partito che appare “prigioniero” di un’alleanza dove sotto il berlusconismo si sono consumate scelte e traffici poco commendevoli. Di qui la spinta a distaccarsi dalla “casta” e a non apparire “impiccata al vecchio”, proprio quando il Paese, con i sussulti di rabbia e di indignazione, trasmette da qualche mese l’intenzione prepotente di comunque “voltare pagina”.
Ieri Umberto Bossi a Montecitorio non c’era, era rimasto a Milano: un’assenza evidentemente significativa. Dopo che negli ultimi giorni aveva trasmesso una immagine ondivaga, per riuscire a tenere comunque conto delle divisioni che attraversano il suo partito. Da un lato, infatti, la lealtà verso il premier e la sua stessa antica diffidenza verso il potere sostanziale e ricrescente dei magistrati (in fondo era stato l’unico segretario di partito in carica condannato nel 1995 per “finanziamento illecito”, otto mesi con la condizionale) lo faceva propendere per il “no” comunque alle manette, dall’altro non poteva restare sordo alla marea montante della base, alla ricerca di un qualsiasi capro espiatorio e desiderosa di vedere i propri capi “smarcarsi” dal tradizionale alleato.
E allora la soluzione della “libertà di coscienza” ai 59 deputati diventava l’unica strada praticabile. Anche perché monta nel suo stesso gruppo parlamentare la spinta ad accelerare la crisi e a farla finita con Berlusconi. D’altronde, se il capofila di questa tendenza rivelatasi maggioritaria nel segreto dell’urna, resta il ministro dell’Interno, anche per Bossi paradossalmente non è una sconfessione. Nonostante il polverone mediatico accrediti (o speri) un cambio di leadership, se il dissenso si convoglia dietro a Maroni, la Lega non si spaccherà: la ormai lunga storia del Carroccio dimostra che Maroni sa essere un ottimo rivoluzionario, ma sempre con il “permesso” del Capo.
Forse, per un partito drammaticamente incerto sulla sua stessa natura e sulle prospettive di lungo periodo (nuove alleanze comprese), mantenere comunque il collegamento con la base militante e incanalare il dibattito interno in mani sicure è una piccola vittoria probabilmente inattesa. Certo, nel confuso panorama politico, lo scoprirsi determinante nei numeri e il rendere “liquida e fluttuante” una maggioranza parlamentare che fino ieri aveva retto a tutte le tempeste è un “fatto politico” di notevole rilevanza. E non è un caso che tutti gli osservatori spiassero con spasmodica attenzione i movimenti (e gli schieramenti interni) del Carroccio. Ma forse, paradossalmente, per Bossi e tutti i suoi il peso politico complessivo del voto sull’arresto di Alfonso Papa vale meno rispetto al sostanziale pur se effimero salvataggio dell’unità interna….