Il rischio di default degli Stati Uniti, l’ascesa di altre potenze come la Cina e i sommovimenti del mondo arabo. Esiste una teoria delle relazioni internazionali che spiega questi tre eventi apparentemente lontani tra di loro: la teoria della stabilità egemonica, una teoria sistematizzata negli anni Settanta da Robert Gilpin e poi rielaborata da altri studiosi. È naturalmente legata al declino degli Stati Uniti, alla percezione del declino dell’egemone mondiale. È dagli anni Settanta in effetti che le predizioni (errate) sul repentino crollo degli Usa si susseguono ogni volta che Washington attraversa una fase difficile. Il tema è di attualità dagli anni in cui il mondo affrontava le prime manifestazioni della crisi internazionale che seguì la fine del sistema di Bretton Woods e la sconfitta degli Stati Uniti nel Vietnam. I politologi erano preoccupati che si ripetesse la crisi e la grande depressione degli anni Trenta, per mancanza di una leadership mondiale.
Per gli Stati Uniti sembrava allora molto difficile mantenere il proprio margine competitivo sui rivali – l’Europa e il Giappone (che fine hanno fatto?) – mentre i costi crescenti del contenimento dell’Urss trasformarono gli Usa, a partire dagli anni Ottanta, nella nazione più indebitata del mondo. Ma forse oggi è il momento giusto per rileggere il capolavoro di Robert Gilpin Guerra e mutamento nella politica internazionale. Secondo Gilpin, ogni sistema politico internazionale è in essere per difendere e promuovere gli interessi di chi lo ha creato (l’egemone statunitense, nel nostro caso). Ne consegue che ogni sistema politico rimarrà stabile fino a quando nessun attore avrà un incentivo a cambiarlo e, soprattutto, finché l’egemone avrà le risorse necessarie per difenderlo. Il problema è che, una volta raggiunto un equilibrio tra costi e profitti di un’espansione, i costi per il mantenimento dello status quo tendono a crescere più rapidamente della capacità di finanziarlo.
Questo divario tra costi e risorse provoca a sua volta una «crisi fiscale» (il rischio default attuale?) della potenza dominante. Se questo persistente squilibrio e il drenaggio fiscale che esso comporta continuano, l’egemone giunge inevitabilmente al declino economico e politico. Di fronte a questa sfida, a sua volta, il paese egemone può rispondere optando per un cambiamento dell’allocazione interna delle risorse (meno consumi e più investimenti, ad esempio), oppure per una diminuzione degli impegni internazionali: per esempio meno spesa in difesa o una ridefinizione delle proprie priorità di politica estera (il tentativo di smarcamento dai teatri di conflitto iracheno, afghano e libico ne sarebbero un esempio). Oppure, in caso estremo, può optare per una guerra preventiva. Tale guerra, che Gilpin chiama appunto egemonica, in quanto porterà ad una redistribuzione di potere tra gli stati, è quella che storicamente ha portato al cambiamento a livello internazionale. La guerra del Peloponneso tra Sparta e Atene, la Guerra dei Trent’anni, le Guerre Napoleoniche, e infine la Prima e la Seconda Guerra mondiale sono tutte guerre che sono state combattute per i cambiamenti di forza a livello internazionale, inevitabilmente attraendo nel conflitto tutti i principali protagonisti (grandi potenze) del sistema.
È chiaro, dunque, per quale motivo la crescita della Cina desti tante preoccupazioni a Washington. Se Gilpin ha ragione, e se gli Stati Uniti sono destinati ad un declino relativo a causa di forze sia strutturali (crescita di altri paesi) che interne, questa situazione porterà a una maggiore instabilità globale. A quale punto della parabola del declino siano oggi gli Stati Uniti e se esso sia veramente così prossimo e inevitabile non è così facile a dirsi. Le società possono rigenerarsi e, in effetti, come scritto da Gilpin, lo hanno fatto: la Cina imperiale si rinnovò per molti secoli prima di raggiungere «una trappola» prodotta dalla diminuzione dei profitti e dalla stagnazione tecnologica; la Gran Bretagna si è ripresa varie volte nel corso di tre secoli prima di entrare in una fase di declino verso la fine del XIX secolo.
Oggi gli Stati Uniti non controllano più unilateralmente il mondo, tuttavia rimangono pur sempre la maggior potenza politica, economica e militare. La storia può suggerire ancora. Come ha sostenuto un paio di anni fa un altro studioso, Paul Kennedy, il declino statunitense potrebbe essere rallentato: «Non so se Obama farà come Filippo II di Spagna, ma a volte per preservare il potere si dovranno scegliere alcune aree di influenza e rinunciare ad altre. Filippo II scelse le sue priorità al massimo del suo potere. E la sua restò una grande lezione per rallentare il declino di una grande potenza». Obama pare aver scelto. Il «ritiro statunitense» sarebbe evidente e l’instabilità nel Medio Oriente e nel Mediterraneo con il rischio di perdita di partner strategici come l’Egitto di Mubarak un suo sotto-prodotto.
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Mauro Gilli, dottorando di ricerca (Ph.D.) in Scienza Politica con specializzazione in Relazioni Internazionali e Politica Comparata presso la Northwestern University (Evanston, Chicago), ci ha scritto segnalandoci che questo articolo copia alcuni passaggi di un suo scritto antecedente senza citarlo. Varvelli si scusa con l’Autore e coi lettori.