Perché i giudici sono sempre più forti della politica?

Perché i giudici sono sempre più forti della politica?

Qualche immagine sparsa di quel biennio ’92-94. Fiaccolate inneggianti al pool di Mani Pulite davanti al Palazzo di giustizia milanese, alla testa quei fascisti oggi convertiti al liberalesimo garantista del Pdl, la chiamata di correo di Bettino Craxi il 3 luglio 1992 quando, sul tema del finanziamento pubblico, denuncia l’omertà di tutti i partiti, il leghista Luca Leoni Orsenigo che alla Camera sventola una corda a forma di cappio, Irene Pivetti sghignazzante alle sue spalle, i cinque pm libertadores che si presentano come un sol uomo in televisione per dire NO al decreto Biondi. E tante altre ancora, a vostra scelta. Per dire che furono anni dai sapori forti, e per palati attrezzati.

In quel tempo, praticamente un ventennio fa, pensare alla supplenza dei giudici rispetto alla politica era persino un ragionamento logico. Azzerando un’intera classe dirigente, con qualche “diligente” eccezione, venivano a mancare i contrappesi di una fragile democrazia, cosicchè l’idea malsana di poter etero-dirigere la complessità di un Paese dagli uffici delle Procure cominciò a farsi strada.

È anche del tutto naturale sottolineare che quella situazione italiana, in cui la fangosa commistione tra appalti e politica (ricorderete che a Milano girava persino un libello con le aziende che “dovevano” vincere le gare) era arrivata a livelli a dir poco eccezionali, non poteva che partorire una rivoluzione giudiziaria eguale e contraria. Lo volevano i giudici, ma non dimentichiamo che lo richiedeva anche il popolo. In questo caso, rarissimo e forse unico, l’uovo e gallina nacquero insieme.

Quei giudici così diversi tra loro (lo testimoniano i percorsi diversi post Mani Pulite) trovarono nella guida del saggio Francesco Saverio Borrelli una sintesi fortunatissima. Ma come tutti i Gastone della storia, trovarono per terra il biglietto vincente della lotteria, gettato o perso chissà da chi: la discesa in campo di Silvio Berlusconi. Nella seconda parte del loro “mandato”, come tutti sappiamo, dedicarono al caro Silvio molte delle loro attenzioni. La lotta senza quartiere a un personaggio di quella fatta fu l’estasi e il tormento di quella Procura.

Come è finita, l’abbiamo tutti sotto gli occhi: qualcuno è andato in pensione, qualcuno è consigliere di Cassazione, qualcuno leader di partito, qualcuno (ancora) premier. Storia passata fino a un certo punto.
Cosa non abbiamo più di quel periodo storico? Intanto non abbiamo più una Procura così potente e coesa come quella di Milano, non abbiamo più un Paese con il forcone in mano, ma abbiamo un Paese che forse è disposto a riprenderlo in breve tempo, e non abbiamo più l’idea (concreta) di ribaltare la democrazia con mezzi diversi da quelli istituzionalmente previsti.

Cosa invece ci è rimasto di quel periodo? Purtroppo diverse cose, e alcune molto negative. Innanzitutto la sensazione, si potrebbe dire perfino la certezza, che la magistratura è ancora infinitamente più potente della classe politica. Questo fenomeno merita un’attenzione particolare. All’interno della società, nelle indagini demoscopiche che periodicamente scandagliano gli umori dei cittadini, i giudici non sono ai primi posti. Anzi.

La giustizia viene avvertita come uno dei grandi problemi del Paese. Lo è. Rispetto al ’92, quando i pm erano issati come madonne pellegrine, la differenza è evidente. Eppure, la vita politica (e sociale) è scandita unicamente dalle inchieste della magistratura. Per dire solo di quelle più recenti, ci si può sbizzarrire con le cricche e gli accostamenti progressivi alla loggia P2: P3, P4, ecc.

In queste ore è stato chiesto l’arresto per Marco Milanese, primissimo collaboratore di Giulio Tremonti. A proposito, visto che abbiamo rotto le scatole a Massimo D’Alema per le sue amicizie pericolose, due paroline anche al ministro andrebbero dette. Ricapitolando: giudici fortissimi senza l’appoggio della gente. Un ossimoro. Come è stato possibile? È stato possibile grazie soprattutto alla politica, che in tutti questi venti anni non è stata in grado di sviluppare l’Italia sul piano delle riforme. Liberalizzazione monche o nulle, legge elettorale immonda, zero sviluppi sulle professioni, nessuna attenzione alla concorrenza, appalti assegnati senza uno straccio di trasparenza, condoni ripetuti, scudi fiscali, regolarizzazione degli abusi e possibilità di generarne dei nuovi, e qui potremmo continuare per ore ma ci fermiamo per carità di patria.

È chiaro, evidente, palmare che in questa terra di nessuno i giudici ci sguazzano. Primo perché è il loro doverosissimo mestiere, quello di rincorrere e rinchiudere i malfattori, ma poi anche per quel sottile, pervasivo, strisciante sentimento di potere che porta il guardiano delle istituzioni a sentirsi ancor più guardiano se nessuno gli delimita il campo, se nessuno diventa contrappeso al suo peso, se l’unico che può ramazzare nell’immondizia è lui e nessun altro. E se magari vogliamo anche sorriderci su, ecco perché Luigi De Magistris è diventato sindaco di Napoli.