L’immagine di Giulio Tremonti che aspetta affannosamente la fine del mese e così entrare in possesso della sua paghetta di ministro (circa 2.900 euro) per pagarsi la metà dell’affitto di quei 200 e passa metri affrescati a Campo Marzio (non gli bastano neppure e dunque, secondo la sua versione, ricorre ai risparmi di pregiato tributarista), è certamente una di quelle immagini che definiscono senza appello la fine di qualcosa. Ma di cosa? Innanzitutto la sua, ma ciò appartiene al campo delle piccole e non troppo nobili cose che capitano, e dunque ascrivibili esclusivamente al perimetro della coscienza personale.
Banalmente, abbiamo il vizio di ricondurre sempre e tutto alla coda di una prima o di una seconda repubblica, senza peraltro spiegare cosa sia stata davvero l’una o cosa sia (ancora) l’altra, mentre l’ingloriosa decadenza di un’epoca ha la necessità che fotografie sconvolgenti e istruttive la possano decentemente illustrare.
In questo senso, la storia di un ministro definito da molti calvinista, emblema per tutti di un rigore dimenticato, lontano dalle spericolate arrampicate delle cricche, che non è in grado di offrire uno straccio di spiegazione credibile alla storiaccia di casa Milanese, è uno di quei film da proiettare nelle scuole dei nostri ragazzi per definire compiutamente la tragedia di un paese ridicolo, dove la parola paese, una volta e per tutte, andrà scritta (finalmente) con la minuscola.
È questa maledetta fusione fredda – da una parte la tragedia senza mai la profondità shakespeariana, dall’altra, come al circo, quell’eterno sghignazzare con i mutandoni colorati in mano, che ci perseguita da oltre mezzo secolo senza che una condizione abbia ragione sull’altra. Che cosa definisce la tragedia di un popolo, se non, come contrappeso al crepaccio della moralità, la sua feroce capacità di indignazione? Che cosa ha fatto blocco in Italia perché ciò non accadesse?
C’è una (buona) parte d’Italia che modula i suoi sentimenti esclusivamente sul granitico convincimento che l’attitudine a una viva amoralità abbia avuto inizio con l’ingresso in politica di Silvio Berlusconi, come se una certa tendenza al ribasso etico fosse un’invenzione di questi tempi moderni e non invece l’inossidabile destino che ci accompagna consapevolmente da più di cinquant’anni. Perché incolpare il Cavaliere di un decadimento che in realtà ci siamo costruiti con le nostre stesse mani, e che lui, semmai, ha tradotto splendidamente nella sua idea di Italia, furba e profittatrice d’ogni scorciatoia pur di non apparire civile? Non siamo forse noi ad avere approfittato di lui e di ciò che è sempre stato il suo essere, spregiativamente, Berlusconi?
Noi ragazzi, ci siamo formati agli scandali che hanno accompagnato il mezzo secolo democristiano. Erano scandali torvi, costruiti nell’ombra e gestiti nell’ombra, dove parti dello stato “democratico” erano perennemente al servizio di altri interessi che non quelli della collettività. Ci siamo formati al doppio stato, alle deviazioni dei servizi, ai tentativi di sovvertire l’ordine democratico, alle stragi di stato, al terrorismo diffuso, ai fondi neri e ad altri mille scandali di proporzioni epocali. Noi ragazzi avremmo avuto tutte le occasioni, e più di tutte, per sollevare d’indignazione un intero paese e riconsegnarlo alla dignità democratica, eppure non lo abbiamo fatto. Perché non ci siamo riusciti, come mai il terrorismo rosso si è perpetuato sino a pochi attimi fa, colpendo i nostri migliori giuslavoristi in tempo di pace? E badate che tutto questo è accaduto ben dopo il mitico e rivoluzionario ’68, in cui cuore e ragione si erano fusi in un unico abbraccio.
Ricordando quel tempo andato, dovremmo ora ricordare anche il tempo che c’è. Se allora la capacità di sentirsi un paese unito e orgoglioso non ci fu, se non per parti separate e autonome, è del tutto pretestuoso pensare che oggi possa nascere un vero sentimento democratico, luminoso, lontano dai giacobinismi, intorno alle storie “minime” di Milanese, Papa, Tedesco, o di millanta d’altri che ci sovrastano l’esistenza con lo squallore dei loro comportamenti. E anche questa furia che si avverte soprattutto sul web, che qualcuno chiama vento di rivolta, è un disordinato esercizio di ribellione che non costruisce sentimenti collettivi. Aumentano i forconi, ma scarseggiano i trattori della semina.
Quando cadrà la statua del tiranno, sarà davvero un bel vedere: a quale altezza stabiliremo l’asticella della morale, come valuteremo i confini della nostra e dell’altrui privacy, quali garanzie di civiltà vorremo offrire agli indagati e agli imputati che verranno, come valuteremo «le prerogative del parlamento», quanto ci batteremo davvero per avere una politica finalmente pulita, quanto saremo severamente giusti nei confronti di tutti i possibili conflitti di interesse?
Ci metteremo alla finestra, noi un poco più anziani. Sarà istruttivo. Intanto però, l’immagine di un Tremonti spericolato arrampicatore di specchi è decisamente la fine di un grande equivoco: vissute ormai tutte le tragedie, ci resta solo il ridicolo.