È scomparso ormai da dieci anni (il 10 agosto 2001), ma intorno alla vicenda intellettuale e politica del Professore comasco resta ancora molto da dire che non sia soltanto l’umana memoria. Non è un caso infatti che tra pochi giorni escano per i tipi de “Il Mulino” due volumi della sua esperienza accademica. Introdotti dagli allievi Lorenzo Ornaghi e Pierangelo Schiera (e curati da Davide Gianluca Bianchi e Alessandro Vitale) riportano fedelmente i suoi corsi universitari di “Storia delle Dottrine Politiche” e di “Scienza della Politica” tenuti con rigore e passione per oltre trent’anni all’università Cattolica di Milano, dove Gianfranco Miglio restò sempre il preside della facoltà di Scienze Politiche.
Certo l’immagine pubblica è rimasta condizionata dal diretto impegno politico degli anni Novanta, vicino alla Lega e a Bossi, con il quale vi furono alternativamente consenso di idee e litigate furibonde, in particolare nel 1994, quando il Profesùr eletto in Senato fu all’improvviso “tagliato” dalla diffidenza dell’Umberto dalla nomina a ministro per le Riforme, incarico al quale appariva logicamente destinato per indiscussa autorevolezza scientifica e per indubbia capacità progettuale. I cronisti del Palazzo rimpiangono ancora gli incontri sul marciapiede, quando, con il capo protetto da un berretto di lana tirolese con al centro un pon-pon rosso, il Professore si divertiva, luciferino, a forzare il quadro politico con affermazioni al limite dello scandalo, tali da sconvolgere il linguaggio dominante del “politically correct”. Eppure sotto l’ostentato cinismo dei ragionamenti sul potere traspariva comunque un amore sincero per il suo Paese al quale aveva dedicato un’intera esistenza di studioso e di ricercatore.
Perché, pur spesso solitario nella comunità scientifica dei costituzionalisti troppo spesso ammalata dalle ideologie, Gianfranco Miglio aveva condotto per mezzo secolo una inesausta indagine sui misteri e i poteri della politica. Con la spoglia consapevolezza del “realismo” (ovvero scegliendo di studiare i meccanismi dell’arte di governo per come si manifestavano nella concretezza e non per come si sognava che fossero) e quindi con l’importazione dei lavori del tedesco Carl Schmitt e soprattutto con l’incrocio del diritto istituzionale con la corposa esperienza che veniva dalla Storia. Di qui la sensibilità al tema della “forza” (che ricavava fin dai racconti antichi del greco Tucidide) e insieme la comprensione che “l’arcano della politica” non poteva essere compiutamente sottomesso e racchiuso nel diritto e nella regolamentazione giuridica.
E tuttavia lo “scienziato della politica” era ben lontano dal rinchiudersi nella torre d’avorio intellettuale: semmai organizzava istituti di ricerca e di approfondimento (a cominciare da quelli sulla scienza dell’amministrazione) ove convogliare le giovani intelligenze più promettenti ed educare intere generazioni di studiosi e professionisti da “prestare” poi alla quotidianità della vita collettiva delle istituzioni e degli apparati pubblici.
Di suo riteneva di essere uno sperimentato artigiano, se non un ingegnere costituzionale: in grado quindi di offrire la “prestazione professionale” di meccanismi giuridici e di governo adatti al mutare dei tempi e alle esigenze di una classe dirigente che avesse il buon senso e l’umiltà di sollecitarli. Così, con il “gruppo di Milano” negli anni Ottanta aveva lavorato sul rafforzamento dell’esecutivo e dei suoi poteri decisori (e un Craxi riformatore ne era rimasto ampiamente sensibilizzato). E così pure, nella prosaica comprensione del ruolo insopprimibile del territorio, la strategia federalista sfociata poi nell’idea delle “macro-regioni” (Padania, Centronia e Mediterranea) e costruita più con l’ordinato rigore asburgico che attraverso il tradizionale empirismo anglosassone.
D’altra parte sempre il realismo portava a leggere l’Italia come un mix disordinato e irriducibile tra la cultura regolata di stampo mitteleuropeo e la creatività levantina e familista di origine mediterranea: per cui il vestito istituzionale da confezionare anche per il futuro doveva liberarsi dai pesanti centralismi burocratici e avere l’interesse sensato di inglobare comunque le infinite “società parallele” prodotte nella storia peculiare del Paese. Perché, contro le astrattezze e i moralismi giacobini, non esisteva “morale” nei meccanismi di organizzazione dello stato, per sua natura del tutto indifferente agli elementi valoriali. E semmai l’etica (pur necessaria) poteva scaturire soltanto dai comportamenti personali e collettivi e dalle rispettive responsabilità.
Da “consigliere del principe” Miglio fu in realtà sempre uno sconfitto: ma in fondo poco gli interessava, se poteva scalfire o compromettere il metodo scientifico del ricercatore che accendeva un faro su una materia così imprendibile e affascinante come gli “arcana imperii”. E il gioco del potere lo avrebbe costretto a un sia pur minimo esercizio di ipocrisia, così estranea al suo carattere, frizzante e asprigno come il vinello bianco che produceva (da “coltivatore diretto”) nel suo “buen retiro” di Domaso, in cima al Lario e a un passo da quella Svizzera che, quanto a meccanismi istituzionali, era così precisa e puntuale come un orologio.
Dieci anni dopo, rinchiuderlo nel Pantheon padano o definirlo “l’ideologo della Lega” (lui che aborriva le ideologie) sarebbe fargli solo torto. Perché resta attuale non solo il ruolo di educatore ma una produzione accademica e intellettuale proprio sulla “scienza del potere” che sfida il tempo. L’intuizione sulle relazioni umane, entrambe originarie e strutturalmente irresolubili l’una nell’altra, ovvero “l’obbligazione politica” e il “contratto-scambio” (che meriterebbero ben più di un accenno) manifesta tutt’ora una accresciuta validità, nella temperie incerta del XXI secolo. Dove la lezione di Miglio parla ancora, pur se era un “grande conservatore”, ma di quelli che sanno e provano con il loro metodo che il modo più efficace di conservare è quello di saper testardamente innovare…