Non solo cervelli, dall’Italia fuggono anche i rifugiati

Non solo cervelli, dall’Italia fuggono anche i rifugiati

Secondo la Procura di Bari ci sarebbe una “cabina di regia” esterna. Forse “il fondamentalismo religioso e un’organizzazione transnazionale”. «La contestualità delle proteste non è un caso», spiega il sottosegretario agli Interni Mantovano. Il primo agosto i migranti ospitati nei Cara di Bari, Crotone e Mineo hanno protestato con estrema violenza contro la lentezza delle procedure burocratiche che li bloccano per anni prima di avere una risposta alla richiesta di asilo. Un’attesa infinita che può concludersi con il permesso di soggiorno o con la condanna alla clandestinità.

Le risposte dello Stato sono state a dir poco contraddittorie. Da un lato le ipotesi complottiste. Dall’altro la dichiarazione dello stesso Mantovano che dimostrava di accogliere le richieste dei rivoltosi: «Ritorneremo a rispettare i tempi medi di questa attesa: un paio di mesi, al massimo».

Ma le violenze non sono arrivate all’improvviso. Sono state il culmine di lunghi mesi di protesta dentro i Cara, i centri che dovrebbero esaminare le richieste d’asilo appunto in un paio di mesi e invece sono diventate strutture lentissime e iperburocratizzate, inserite nelle procedure d’emergenza, pensate per trattenere asiatici e africani per anni in luoghi isolati e utili a far girare un sistema di appalti milionari. «Ci tengono qui più a lungo possibile perché devono guadagnarci il più possibile», ha scritto un ragazzo tunisino rimasto intrappolato nel limbo dei centri tra Basilicata e Puglia. Nel suo paese era un protagonista della rivoluzione dei gelsomini, in Italia è diventato una pratica da evadere. Molto lentamente.

A Bari la protesta è degenerata in violenta guerriglia. A Crotone una decina di nigeriani sono accusati di vari reati tra cui devastazione. Ma cosa c’è dietro gli episodi violenti? A Mineo, nel cuore della Sicilia orientale, le proteste sono nate già con l’istituzione del centro che doveva rappresentare l’eccellenza dell’accoglienza italiana. A febbraio più di mille migranti furono trasferiti con ponti aerei dai Cara di tutta Italia al residence costruito per i marines della vicina base di Sigonella e requisito (per una somma ancora misteriosa) alla ditta proprietaria, la Pizzarotti di Parma.

In piena emergenza Lampedusa tutto era possibile. Varie associazioni ed enti, tra cui l’Acnur, spiegarono che si trattava di un’operazione insensata. Perché spostare richiedenti asilo da Crotone o Bari, dove di lì a qualche giorno sarebbero stati sentiti dalla commissione, a un centro sperduto tra gli aranceti della Piana di Catania, a un’ora di cammino (in salita) da un paese fantasma? I ritardi hanno dato vita a blocchi stradali e tensioni tra gli stessi ospiti. Al ritmo di pochi esami al giorno si rischia di rimanere al “Villaggio degli aranci” per anni. Ventiquattro mesi della propria vita gettati via. “Medici senza frontiere” ha denunciato sette tentativi di suicidio all’interno del centro. Gente sfuggita ai talebani, alle corti islamiche, alle ferite del Darfur e alla repressione di Ben Alì ma che non riesce a sopportare la burocrazia italiana.

L’Italia dichiara l’emergenza in Africa. Con l’ordinanza n. 3933 del 13 aprile 2011, la Presidenza del Consiglio dei Ministri decideva che il capo del Dipartimento della Protezione civile diventava anche commissario straordinario dell’emergenza immigrazione. Quest’ultima era stata decisa con un precedente decreto del 12 febbraio 2011 che, con una originale interpretazione giuridica, era esteso a tutto il “Nord Africa”.
Berlusconi stabiliva quindi – con un nuovo decreto del 7 aprile – “lo stato di emergenza umanitaria nel territorio del Nord Africa per consentire un efficace contrasto all’eccezionale afflusso di cittadini extracomunitari nel territorio nazionale”. L’obiettivo era l’annullamento delle regole interne: occorre “assicurare l’urgente attivazione di interventi in deroga all’ordinamento giuridico (…)”. Il decreto è stato confermato ed esteso il 13 agosto. La gestione emergenziale non riguarda ora solo i profughi provenienti dal Maghreb ma anche quelli di Somalia, Etiopia, Kenya, Gibuti e Uganda, dove è in atto una nuova “catastrofe umanitaria”.

La gestione dell’immigrazione coinvolge enti come la Protezione civile e la Croce Rossa, ma anche il cosiddetto privato sociale, in gran parte di matrice cattolica: dal consorzio Connecting People alle Misericordie d’Italia fino ad Auxilium, legata a Comunione e Liberazione. Si occupano della gestione logistica di Cda, Cie e Cara (rispettivamente i centri destinati alla prima accoglienza, all’identificazione e ai richiedenti asilo) e di molte attività collaterali. Solo per fare un esempio, per il progetto “Nautilus” sono stati spesi un milione e mezzo di euro per tracciare l’identikit del rifugiato. Somministrando meno di 10 mila questionari, si è arrivati alla conclusione che chi chiede asilo nel nostro paese è “uomo, giovane, tunisino, somalo o afghano”.

Il desiderio di fuga dall’Italia. Via dei Villini, Roma. È il quartiere delle ambasciate. Fino allo scorso febbraio, la palazzina fatiscente che ospitava i diplomatici somali è stata la casa dei rifugiati. Una storia paradossale di abbandono e degrado terminata dopo uno stupro in cui sono stati coinvolti due africani (ma erano stati altri connazionali a denunciarli). Con logica da rappresaglia, tutti i somali sono stati sgomberati. Molti di loro provenivano da Svezia e Norvegia. In quei paesi si erano inseriti bene. Ci hanno mostrato i bancomat scandinavi e raccontato le storie di sfruttamento: pochi euro al giorno per scaricare scatoloni a Pomezia, a volte neppure quelli perché il padrone non li aveva pagati. Alcuni di loro sognavano la Svizzera e l’Inghilterra, altri decidevano di bruciarsi i polpastrelli per evitare di essere riconosciuti alle frontiere e rispediti in Italia.

Anche i palestinesi di Riace, in questi giorni, hanno lasciato la Calabria per la Svezia. Un trasferimento di massa che non mette in discussione il modello dell’accoglienza senza recinti (nel paese infatti gli stranieri vivono normalmente in mezzo alla popolazione) ma la capacità di attrazione di territori dove prevale la disoccupazione e l’economia di sussistenza.

Gli stranieri non rifiutano – come prevedibile – l’estremo Sud ma anche la “Padania” impoverita dalla crisi. I tunisini giunti in Italia fino ad aprile – appena ottenuto un permesso – hanno provato a raggiungere la Francia o la Germania. “Quindici tunisini arrivano a Pavia”, urlava la Provincia Pavese lo scorso 17 aprile. La città conta 71mila abitanti. E quei pochi stranieri, dopo qualche ora, si dirigevano verso il confine francese, così come una quarantina di altri tunisini ospitati nei comuni di Vigevano e Voghera. Un soggiorno di poche ore, giusto il tempo necessario per una dichiarazione della capogruppo leghista in consiglio provinciale: “Sono una minaccia ai valori cristiani…”.

Mentre tanti stranieri, soprattutto i richiedenti asilo, vogliono andare via dall’Italia, non si contano le reazioni isteriche da Nord a Sud rispetto a un’invasione che è spesso solo televisiva. In provincia di Vicenza, a maggio, una finta bomba accoglieva l’arrivo di circa 200 profughi provenienti dalla Libia. La presenza di stranieri scatenava le solite polemiche di stampo leghista. Il sindaco di Asiago dichiarava che la stagione turistica era compromessa. Nella stessa zona, a Gallio, l’arrivo di un profugo permetteva al primo cittadino di pretendere che fosse “giovane e cristiano”, per potersi integrare meglio. A Settime, settecento abitanti in provincia di Asti, si è quasi arrivati al referendum per decidere dell’arrivo di una decina somali. “Attesa per l’arrivo di dodici profughi”, titolava un mese fa la stampa locale, quando ormai la paura era passata.
Anche in Meridione la sindrome ha prodotto i suoi effetti. È sempre il periodo di aprile, quando la tv manda in onda le immagini dell’“esodo biblico” su Lampedusa. A Manduria – provincia di Taranto – gli abitanti si organizzano per la caccia a cavallo del “clandestino”, ignorando che i tunisini sono semplicemente in attesa di identificazione e non criminali in fuga. In Sicilia, il presidente della Regione consigliava di “uscire con il mitra” agli abitanti di Mineo.

La gestione dei profughi è la cartina di tornasole di un Paese pasticcione e incattivito. La Tunisia, in questi mesi, ha ospitato al confine migliaia di profughi della guerra di Libia. Senza le nostre isterie. 

Entra nel club, sostieni Linkiesta!

X

Linkiesta senza pubblicità, 25 euro/anno invece di 60 euro.

Iscriviti a Linkiesta Club