Post SilvioAnche i mercati votano: il governo vada a casa

Anche i mercati votano: il governo vada a casa

5 settembre

Avevamo pensato, oggi, di scrivere un editoriale sulla situazione dell’Italia, ancora una volta tartassata dai mercati, con la borsa in crollo e lo spread che si impenna, ancora una volta, oltre i livelli di guarda. Mentre ripercorrevamo gli articoli contenuti nel nostro archivio, però, ci spiamo spiacevolmente sorpresi a constatare la perfetta attualità di un articolo pubblicato su Linkiesta il primo agosto scorso. Anche allora era lunedì, anche allora i mercati davano il loro verdetto, anche allora si votava in modo netto una manovra del tutto insufficiente. Allora come oggi eravamo contro nuove tasse su chi lavora e produce ricchezza; anche allora pensavamo alla necessità di un taglio della spesa improduttiva da reinvestire a vantaggio di nuove generazioni di senza diritti che bussano al mondo del lavoro; anche allora pensavamo che un innalzamento dell’età pensionabile sia uno sforzo ragionevole che dovrebbe essere compreso da tutti, Cgil e Pd compresi, e azionato subito da un governo dotato di un minimo di coraggio; anche allora pensavamo che un paese in cui meno di 800 persone dichiarano un milione di euro sia un paese in cui la lotta all’evasione ha bisogno di diventare una cosa seria, non uno slogan ridicolo. Cosa c’è di diverso, da allora? Che va tutto un po’ peggio, e siccome partivamo già male, la situazione è diventata gravissima, anche perchè nel mezzo ci sono sei finanziarie diverse, cambiate ad ogni stormir di fronda, e nessuna garanzia, anche minima, di credibilità. Ci spiace, insomma, che quanto scrivevamo il primo agosto sia ancora attuale e ve lo riproponiamo sottoscrivendo ogni parola. 

1 agosto

La tecnocrazia non ci piace; preferiamo sempre che la democrazia, cioè il voto degli italiani, abbia la meglio. Preferiamo che chi ha vinto le elezioni governi, perché così prevede la nostra Costituzione e, come la nostra, ogni ordinamento liberaldemocratico del mondo. Arrivano però momenti, e sono questi, in cui una politica responsabile sa fare scelte di democrazia sostanziale senza provare a rifugiarsi nel formalismo. Berlusconi e il suo governo possono infatti stare al loro posto, almeno fino a quando hanno i numeri in Parlamento. Nella sostanza, però, un governo così delegittimato non si vedeva da mai, nella nostra ancor breve e tortuosa storia repubblicana. Dopo il voto degli elettori, arriva oggi quello impietoso dei mercati: e non ci sono più fattori esogeni in grado di giustificare una crisi che ha il suo epicentro a Roma e Milano, non ad Atene o a Washington. 

Arriva, questo governo, da una serie di sconfitte politiche tutte maturate sul campo e in contesti e modi assai diversi tra loro: la coalizione che lo regge ha perso nella “sua” Milano; ha perso a Napoli; ha perso i referendum. Balla sul filo di sondaggi – una volta sbandierati serenamente come strumento, appunto, di democrazia sostanziale – che ritraggono una realtà di consenso disastrosa. Il dato fa tanto più impressione quanto più è evidente che, nel campo politico-parlamentare, non si affaccino alternative credibili. La fiducia nel governo è dunque in picchiata, anche se, nella sua coalizione o in quella a esso avversa, non si vede chi possa catalizzare seriamente il malcontento e farlo diventare politica. Una situazione di insicurezza diffusa che mette paura, richiede prontezza ed evoca paragoni storici suggestivi quanto inquietanti, come quelli articolati da David Bidussa su queste pagine.

L’ultimo rifugio di serietà – quello rappresentato da Giulio Tremonti e dalle sue garanzie sui conti – sembra definitivamente caduto sotto i colpi delle vicende giudiziarie e personali ma anche, soprattutto, dall’aver approntato una manovra finanziaria che ha rassicurato i mercati per mezz’ora. Quanto sia stabile la preoccupazione per il nostro paese, da parte del mondo della finanza, lo spiega una volta di più Fabrizio Goria, e molte indicatori confermano quello che in molti sanno e in pochi dicono al di là delle fazioni di appartenenza: il problema non era la Grecia; il problema non era il debito americano; il problema dell’Italia è l’Italia stessa e questa classe dirigente. Una classe dirigente, sia chiaro fin da subito, che non può pensare di farcela a metà. Tanto per essere chiari, parliamo di certa propaganda berlusconiana che, dopo diciott’anni di sodalizio pressoché indissolubile, riesce perfino a ritrarre Berlusconi come qualcosa di totalmente altro rispetto a un tecnico-politico – Giulio Tremonti – senza il quale ben poco avrebbe potuto fare.

E insomma, è arrivato il momento di prendere atto di una realtà amara: il fallimento delle politiche promesse e mai attuate e l’incapacità di ridurre la spesa e le tasse ci riportano dunque alla casella di partenza. Al bisogno di un commissario. Al bisogno di qualcuno che garantisca per noi agli occhi del mondo: vent’anni fa toccò a Carlo Azeglio Ciampi, oggi potrebbe essere Mario Monti. Di questo vuoto della politica, che chiama ancora una volta la scelta tecnica, sono responsabili in tanti. Anzitutto Silvio Berlusconi, la Lega Nord e il loro blocco politico, che tante rivoluzioni avevano promesso e di quelle stesse rivoluzioni, più che mai, continuiamo ad avere bisogno. Ma non sfugge a nessuno che, se a vent’anni di distanza la politica è ancora insufficiente a governare i processi politici, colpe grosse riguardano anche un’opposizione, ancora una volta, indecisa a tutto.

Problemi grossi, di ieri e di domani. Problemi di un ceto politico che non si è saputo ribellare coi fatti alla definizione di “casta”, né ha combattuto seriamente per ripensare il concetto stesso di rappresentatività nel mondo che cambia. Problema di domani e dopodomani, quindi, anche quello di un nuovo soggetto politico che si faccia carico di ridare al paese il senso di serietà contenuto nella parola “democrazia”. Oggi, però, conta solo lo spietato presente: un presente fatto di urgenze che l’ennesimo “lunedì nero” di Piazza Affari si limita a confermare. A questo governo non crede più nessuno, la tattica di convocazioni delle parti sociali e vertici lascerà il tempo che ha trovato. Un tempo perso, cui non possiamo permetterci di aggiungerne altro

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