C’è un cortocircuito che rischia di essere fatale. Le casse dello Stato hanno bisogno di soldi, il nostro debito ci schiaccia mentre il governo è paralizzato, ad immagine e somiglianza del suo vecchio leader. Così, le agenzie di rating mantengono a ragion veduta le loro minacce e ci declassano, aprendo ulteriori scenari di incertezza e nuove tensioni sui mercati.
In tanti, tra i politici e gli opinionisti, fanno finta di non sapere che il problema del paese è la credibilità e la mancanza di strategie della politica italiana e di chi la governa. Arrivano a sostenere che il problema principale dell’Italia di oggi sono Confindustria e sindacati – entrambi hanno le loro colpe, per carità, ma non è a causa degli stanchi rituali delle relazioni industriali italiane che oggi siamo dove siamo.
È così, alla faticosa ricerca di cause alternative della malattia, si affianca ovviamente anche quella di ricette diverse da quelle che il buon senso politico suggerirebbe quando il problema è la credibilità di una classe politica. Ed ecco che spunta la parola magica: “privatizzazioni”, via veloce per fare cassa più o meno sicura e più o meno abbondante. Quanto basta per tirare fiato per qualche mese. La “proposta” gira in Italia e trova orecchi attenti sul Wall Street Journal: del resto, è un momento perfetto per fare ottimi affari.
La sola parola “privatizzazioni”, in Italia, dovrebe essere usata con grande cautela e ponderazione, dati i controversi esiti che hanno portato, se guardate dal punto di vista dell’interesse pubblico, le prime grandi privatizzazioni realizzate negli anni ‘90. Telecom e Autostrade sono esempi ormai remoti di trasferimento di patrimoni pubblici (e di altrettanti monopoli) che avrebbero potuto essere gestiti e fatti fruttare meglio, soprattutto nell’interesse del cittadino-consumatore-contribuente.
Davvero l’Italia di oggi, il suo governo, la sua classe dirigente egemone sono in grado di garantire una maggiore serietà e rigore a queste operazioni di eventuali privatizzazioni o comunque dismissioni di patrimonio pubblico “sensibile”? Ancora: davvero i proventi di queste cessioni, in assenza di un programma strutturale di lungo periodo, di riforme della spesa e del sistema pensionistico, di un’idea forte per la crescita e il lavoro, servirebbero a qualcosa di più importante e duraturo di un semplice “tamponamento” dell’emergenza?
A supporto della strada per le privatizzazioni qualcuno porterà – o ha già portato – un argomento indubbiamente forte: il “modello-Guarguaglini”. Il manager che dal 2002 il governo – a Palazzo Chigi era tornato da poco Silvio Berlusconi – ha voluto alla guida della grande multinazionale italiana degli armamenti e dei sistemi di difesa. Uno dei fiori all’occhiello dell’industria italiana, indubbiamente, che il ministero dell’Economia controlla con una quota del 32 per cento.
Si dice – lo dirà qualche “distratto” fan di una privatizzazione improvvisa – che quel che si apprende (si è appreso e si apprenderà ancora) sulla gestione di Finmeccanica milita a favore di una robusta vendita di quote pubbliche. Perchè il “modello-Finmeccanica”, in questi anni, fa rima con scandali giudiziari, strane commissioni, e persino qualche star piccola piccola, come Debbie Castaneda, remunerata per facilitare i rapporti tra Finmeccanica e l’ex Presidente colombiano Uribe. Il sillogismo della privatizzazione sarebbe: Finmeccanica è un gran casino; Finmeccanica è un’azienda a controllo pubblico; le aziende a controllo pubblico sono per forza un gran casino; vendiamole. Il sillogismo – in un paese che ha disperato bisogno di soldi – potrebbe valere poi anche per qualche altro pezzo pregiato che ancora abbiamo in tasca, e che valgono ben più di Finmeccanica. Eni è il primo nome che viene in mente, anche per non allontanarci da pagine recenti in cui la cronaca politico-economica ha camminato a braccetto con quella giudiziaria.
È evidente a tutti che il sillogismo e l’intero ragionamento sono insensati. Fatti da chi, o ragiona male o è in malafede. Per spazzare via certi metodi e certe commistioni tra una classe dirigente politica decadente e una certa gestione delle grandi aziende non serve cambiare proprietà delle stesse: basterebbe che la proprietà attuale – cioè lo stato, il governo – imponessero ben altro regime di trasparenza e sobrietà. Basterebbe questo, ma c’è anche altro: questa classe dirigente, questa situazione politica-governativa, brucerebbe nel falò della sua poca credibilità i miliardi ricavati da quelle cessioni. E in fretta.
Del resto, tanto è inadeguato questo governo a pensare a un piano di cessioni delicatissime – Eni e Finmeccanica non sono solo due grandi aziende italiane, ma anche due “ponti” verso mondi complessi e dagli equilibri fragili – che nemmeno riesce a mettere ordine nella gestione corrente delle aziende stesse. Anzi, per dirla tutta, è il fattore primo di una confusione di relazioni pericolose che potremmo sintetizzare nelle due diverse personalità di Debbie Castaneda e del Colonnello Gheddafi.
Giù le mani dall’argenteria, per favore. E già che ci siamo, una domanda: di cosa ha ancora bisogno un governo davvero in carica, un governo che davvero governi, per prendere un provvedimento di prudenza (e di interesse nazionale) nei confronti del Presidente di Finmeccanica Pier Francesco Guarguaglini e del suo “metodo”?