L’Italia annaspa, il Governo ci prova quattro volte prima di partorire una manovra che a malapena riesce a seguire le linee imposte dalla Bce. E mentre i ceti produttivi fanno quotidianamente i conti con le conseguenze della crisi economica, c’è chi si domanda che cosa faccia e dove sia la borghesia italiana, soprattutto al Nord. In altra epoca, nel 1980, guidata dalla Fiat, la marcia dei quarantamila a Torino segnò uno spartiacque. Allora erano quadri e dirigenti, guidati da Cesare Romiti. Oggi sarebbe possibile un segnale chiaro da parte della borghesia produttiva? Ne parliamo col professor Luca Ricolfi che non risparmia bordate. «La borghesia italiana? Non è mai stata liberale, è un ceto fortemente parassitario», dice a Linkiesta.
Insomma, professore, partiamo dal principio: quale borghesia e quale ceto medio italiano si sono sentiti rappresentati da Berlusconi e dal leghismo?
Sociologicamente, i professionisti, le partite Iva e i dipendenti privati con livelli di istruzione intermedi. In senso meno sociologico ma più psicologico, direi soprattutto gli insofferenti per la sinistra e, più in generale, per la cultura della solidarietà incondizionata.
E quanto, in questo blocco politico-sociale, è sentita e percepita, secondo lei, la fine della stagione politica che chiamiamo “berlusconismo”? Quali sono le ragioni strutturali, dal punto di vista economico e sociale, di questo scongelamento?
La crisi è molto sentita, ma il consenso per Berlusconi è sempre stato sopravvalutato: anche negli anni migliori, i veri fan sono sempre stati compresi fra il 5 e il 10% del corpo elettorale.
Lo scongelamento ha certamente ragioni strutturali, ma non solo. Le ragioni strutturali si riducono a una: nessuna delle promesse fondamentali di Berlusconi, prima fra tutte l’abbattimento della pressione fiscale con le due aliquote Irpef del 23 e 33% è mai stata mantenuta, neanche quando sarebbe stato possibile farlo.
Ci sono anche ragioni meno strutturali, ma ugualmente importanti: gli italiani amano i vincenti, ma abbandonano al loro destino i perdenti. Di conseguenza i cambiamenti di orientamento politico possono essere anche molto repentini, come alla fine della prima Repubblica e alla fine del Fascismo. Mussolini, Craxi, Berlusconi: in Italia l’inversione del consenso è processo di mesi, non di anni.
E secondo lei quanto le istanze fondative di quel blocco politico-sociale cercano ancora rappresentanza? E quanto, invece, il mondo dell’impresa, delle professioni, della “borghesia” insomma sono cambiati in questi 17 anni? Quali sono i tratti unificanti di questo “nuovo ceto medio”, le loro richieste profonde?
Anche quelle istanze fondative furono largamente sopravvalutate. Forse mi sbaglio, ma io vedo soprattutto continuità dove voi vedete rotture, o evoluzioni. La borghesia italiana non è mai stata liberale, né ha mai cercato sul serio di ridurre il ruolo della politica. La borghesia italiana, specie la grande borghesia, ha semmai sempre cercato di usare la politica, per ottenere favori, esenzioni, posizioni di rendita, informazioni riservate, commesse, sussidi. È un ceto fortemente parassitario, più interessato a pilotare le risorse della politica che ad affrancarsi da essa. La nostra classe dirigente ha sempre avuto paura di scontrarsi con i governi, anche quando era piuttosto chiaro che le loro politiche mandavano a gambe all’aria il Paese, e con esso i produttori di ricchezza.
Non dice niente il fatto che non vi sia mai stata una vera battaglia per la riduzione dell’imposta societaria? E non dice nulla il fatto che i ceti produttivi del Nord non siano riusciti a strappare un federalismo capace di riequilibrare una situazione che dopo il 1995, finite le svalutazioni competitive, era divenuta insostenibile per l’economia regolare? Vi sembra possibile che, in occasione dell’ultima manovra, la Confindustria e Rete Imprese si siano lasciate scippare l’aumento dell’Iva, ossia l’unica carta che gli esportatori avevano per ridare un minimo di fiato alle imprese?
Se si fosse voluto far ripartire la crescita, i 4-5 miliardi dell’aumento dell’Iva avrebbero dovuto e potuto essere usati per abbassare l’Irap e/o l’Ires. Una borghesia coraggiosa avrebbe fatto una battaglia prima, spiegando che aiutare i produttori di ricchezza è la via maestra per tornare a creare posti di lavoro, anziché piagnucolare dopo, lamentandosi di aver perso una battaglia mai combattuta.
Nel 1980, il ceto medio si sentì rappresentato dalla marcia dei quarantamila. Oggi la Fiat non è più il catalizzatore simbolico dell’impresa italiana. Cosa può raccogliere e rappresentare attorno a sé la “borghesia produttiva”, quelli che Gabrio Casati nel suo ultimo libro chiama i “contadini”? Quanto il mondo della rappresentanza d’impresa è cambiato mettendosi al passo coi tempi, e quanto invece sconta un ritardo culturale?
La borghesia produttiva esiste, ma è priva di coscienza di classe, come avrebbe detto il buon vecchio Marx. Forse, più che scontare un ritardo, sconta due peccati originali speculari, o di segno opposto. La grande borghesia sconta una scommessa sbagliata sulla politica, la credenza (a mio parere erronea) che sia più conveniente negoziare e venire a patti con il ceto politico piuttosto che combattere per cambiare radicalmente la politica. La piccola borghesia autonoma, invece, sconta la sua presunzione di poter fare a meno della politica, di poter andare avanti senza darsi una rappresentanza forte a livello politico. Ciò vale, in particolare e forse non a caso, per le partite Iva del Triveneto, la patria del “faso tuto mi”.
Lei mi chiede se il mondo della rappresentanza d’impresa si è messo al passo coi tempi… Ma le sembra che, se Rete Imprese Italia, l’organizzazione di rappresentanza dei “piccoli”, fosse al passo con i tempi, durante questa manovra si sarebbe lasciata paralizzare dagli opposti interessi dei commercianti e dei piccoli imprenditori in materia di Iva?
Il tema della pressione fiscale e dell’evasione non ha mai smesso di essere un’urgenza italiana. Una forza politica “moderata” e liberale non potrà non farsene carico. Come riuscirci, in un paese in cui la “civiltà fiscale” non sembra consolidata, nel tempo?
Penso che non ci riusciremo, perché siamo un paese non solo cattolico, ma con una mentalità cattolica. Ogni questione economica – come il problema di aumentare la torta del reddito – viene vissuta in chiave di equità distributiva, con tutto il corredo di pregiudizi contro la ricchezza di cui è imbevuta l’Italia.
Facciamo un esperimento mentale. Siamo in pieno deserto, un manipolo di disperati avanza in groppa a dei cammelli. Se qualcuno si alzasse e dicesse “diamo da mangiare ai cammelli, perché sono loro che ci trasportano, se li lasciamo senza cibo non usciremo mai da questo deserto e finiremo per morire tutti”, immancabilmente si alzerebbe l’egualitarista-solidalista-moralista per spiegare che il poco cibo disponibile va distribuito secondo giustizia. Seguirebbe un’appassionata discussione sui meriti relativi di cammelli e esseri umani, sui bisogni rispettivi di maschi e femmine, giovani e anziani, pastori e contadini. Il gruppo troverebbe immorale dare da mangiare ai cammelli, che dopo tutto “sono solo delle bestie”, il cibo verrebbe diviso secondo principi più o meno sensati di equità, e alla fine nessuno – né i cammelli, né gli umani – uscirebbe vivo dal deserto.
Uno degli altri grandi nodi irrisolti riguarda la strutturale divisione del paese secondo molti indicatori macro e microeconomici. La Lega tornerà a cavalcare la protesta di cui non ha risolto le ragioni? E ancora, tornando al tema principale: può un nuovo soggetto politico “moderato” incorporare in sé quelle istanze, oppure resteranno un’esclusiva di un movimento territoriale come la Lega?
Posso sbagliarmi, ma a me pare che la Lega abbia seppellito il federalismo, e forse anche sé stessa. Hanno fatto così poco, così male, e così tardi che la bandiera del federalismo non potrà più essere agitata credibilmente da nessuno. La sinistra comunista e post-comunista non ci ha mai creduto. I cattolici lo vedono come un peccato mortale contro il sacro dovere della solidarietà. La Lega l’ha barattato con il consolidamento del suo potere governativo e amministrativo, comprese le poltrone nelle società controllate da Regioni ed enti locali. Se la Lega fosse stata veramente federalista non si sarebbe opposta né al taglio delle Province né alla liberalizzazione dei servizi pubblici locali.
No, il federalismo andrà avanti come mero riordino dei conti pubblici territoriali (opera di trasparenza comunque meritoria), ma l’idea federalista è morta. All’orizzonte non vedo nessuno che possa raccogliere quella bandiera, perché in troppi ormai l’hanno disonorata.
Quello che invece potrebbe succedere, secondo me, è che alcune delle istanze del federalismo precipitino in altro da sé. Nei prossimi anni potremmo assistere – ma è solo un’ipotesi, che non considero particolarmente probabile – a una riscossa dei produttori, ma sganciata da istanze territoriali: una sorta di “marcia dei 40 mila” contro il parassitismo. Un’altra possibilità, forse più realistica, è che quando l’euro si spaccherà in un euro forte (nordico) e un euro debole (mediterraneo) il Nord-Italia, anziché aderire all’euro debole puntando su un nuovo ciclo di svalutazioni competitive, preferisca aderire all’Euro forte riprendendosi i propri soldi (50 miliardi all’anno): uno scenario da incubo, almeno per chi non ama le guerre civili nemmeno quando sono ritenute politicamente o economicamente corrette.