Post SilvioNel paese di Emma e Sergio, dove hanno tutti torto

Nel paese di Emma e Sergio, dove hanno tutti torto

Nei ritmi veloci della crisi politica ed economica masticata più volte al giorno dai media, i fatti che sembravano importantissimi appena ieri scivolano in fretta nelle retrovie delle memorie e dei giornali. Quanto è successo appena due giorni fa tra la Fiat e Confidustria, merita di essere riletto, ricordato e messo in prospettiva. Mentre tutto sta per esplodere, salta infatti per aria il sistema della rappresentanza delle aziende italiane. Si usano tante perifrasi, si gira molto attorno alla “ciccia”: Confindustria, dopo l’uscita dall’associazione da parte della Fiat di Marchionne, può farsi molto male. È sensibilmente più debole, sia nella tattica antigovernativa di oggi e domani, sia nella strategia di rappresentanza di dopodomani, quando a guidare gli industriali non sarà più Emma Marcegaglia e ai vertici della Confederazione arriverà qualcun altro, magari col sostegno silenzioso di una Fiat seduta a bordocampo ma eventualmente pronta a tornare a pagare la sua quota.

Confindustria intanto perde subito i pezzi: le cartiere Pigna, guidate dal deputato del Pdl Giorgio Jannone, seguono a ruota Marchionne. Guidalberto Guidi rilascia ai giornali più vicini al premier interviste al vetriolo contro Marcegaglia. La mossa di Marchionne, nel breve periodo, rende questo governo un po’ meno debole e il fronte dei contropoteri sensibilmente meno compatto. La prospettiva di elezioni anticipate seguendo la via spagnola – forse l’unica realistica, come ipotesi per risolvere una legislatura che continua tra le sofferenze il suo corso – sembra oggi ancor meno solida: e dipende anche dalla mossa di Marchionne. 

Il contesto politico non ha bisogno di essere descritto ancora una volta: Berlusconi sembra al declino definitivo di un governo decennale, e di un’attività politica quasi ventennale. Il paese per molte ragioni è sostanzialmente in autogestione, non governato da una politica che parla e chiede che si parli di sé. Giulio Tremonti ieri al proposito, è tornato ad azzeccare la battuta: «In Spagna stanno meglio, forse perché si va a votare presto…», salvo poi rimangiarsela.

L’economia nazionale, nel mentre, tiene il fiato sospeso. Da anni, più o meno ininterrottamente, sta in apnea. Uno scenario che ha tanti corresponsabili, in gradi diversi: la politica, i capitani di azienda, i sindacati, le banche. Tutti hanno una “fortuna”: la crisi è anche internazionale, eccome. In questo contesto, è arrivato a un certo punto Sergio Marchionne. Si è preso la scena portando una ventata di aria fresca: dal maglioncino alle capacità dimostrate sul campo; dall’accento all’evidente differenza di mentalità e cultura economica rispetto al mondo circostante. Con questi ingredienti ha affascinato molti. E ha portato idee e principi di critica giusti, con cui era doveroso confrontarsi in un paese immobile: non risparmiando attacchi e stimoli al sindacato, alla politica e alla rappresentanza di industriali. Certo, ha lanciato Fabbrica Italia come un grande reinvestimento di Fiat: per il momento si contano solo le auto in meno che in Italia si producono, e le ore di cassa integrazione in serie a Mirafiori e Pomigliano. L’ultima fase della Fiat di Marchionne, poi, è stata segnata da referendum aziendali e da chiamate “alla conta” via via più frontali. Ha sempre vinto, Marchionne, mentre poneva molti temi sostanzialmente giusti: ad esempio che l’assenteismo e un sistema che tutela gli assenteisti sono intollerabili in un paese che vuol competere nel mondo di oggi. Con la Cina così vicina. E però, in cambio, prometteva che in caso di vittoria l’investimento sul nostro paese sarebbe continuato, e addirittura cresciuto.

Questa settimana se n’è andato da Confindustria, perché non si sente tutelato dal suo sindacato. La ragione fondamentale, addotta dal manager italo-canadese residente in Svizzera, è che “Confindustria” fa politica. Ha ragione: quando ci si accorda con la Cgil sulla libertà di licenziare per fare fronte comune contro un governo agli sgoccioli, si fa effettivamente politica. Non è detto, si potrebbe anche aggiungere, che questa sia sempre un male: di certo non è vietato. Certo, a Marchionne una Confindustria “troppo politica” dava meno fastidio prima: quando – è critica diffusa, quasi consensuale – “Marcegaglia non fiatava, e ascoltava Berlusconi vantarsi di come l’Italia fosse al sicuro dalla crisi”. Ora Fiat se ne va, col suo carico di torti e ragioni, di franchezze e ambiguità: e a molti viene naturale pensare che, dato il contesto, il prossimo addio potrebbe essere all’Italia. Non serve nemmeno leggere i segni dei tempi o i bilanci, le dichiarazioni che arrivano dal gruppo sono riassumibili da una, recente, del giovane presidente John Elkann: «L’Italia decida se vuole continuare a fare automobili o no».

Sacconi e il governo fanno l’articolo 8, e per Marchionne la politica va benissimo, e Sacconi viene elogiato pubblicamente. Come pubblicamente, Marchionne, aveva dichiarato il suo voto eventuale in caso di un’eventuale candidatura di Montezemolo: «Ovviamente io lo sconsiglio di fare politica». Tra l’altro – così avevamo capito ai tempi del referendum di Pomigliano – quello che serviva già si era ottenuto, allora, e col voto degli operai e dei sindacati (tranne la Fiom). Alla fine di questa vicenda le possibili considerazioni sono tante. Di questo sfaldamento – come si è detto – le responsabilità sono tante, condivise, inestricabili. La Confindustria di Emma Marcegaglia poteva e doveva tracciare un cambio di rotta prima, perché questo ci si aspetta – nell’interesse dei suoi iscritti – da chi rappresenta l’economia reale italiana. Forse, anzi, sarebbe il caso di fare una seria autocritica sul sistema di rappresentanza degli imprenditori accogliendo le provocazioni che arrivano anzitutto da Marchionne.

La Fiat di Marchionne però, che spesso ci piace quando parla di relazioni industriali, dovrebbe chiarire il quadro sulla situazione industriale di casa sua, e dire con franchezza che prospettive ha la sua azienda sul territorio italiano. L’Italia deve qualcosa a Fiat, ma anche Fiat deve tantissimo all’Italia, e non se ne può scordare adesso. I sindacati continuano nel loro arrocco, ognuno con particolare attenzione alle sue sacche di controllo e potere: chi gli statali, chi le fabbriche. E dimenticano per strada milioni di lavoratori “nuovi” che, prima o poi, dovranno fare da sé. Di certo, questa lunga serie di rotture e scossoni deve aprire una fase nuova. Una fase in cui Confindustria e sindacati facciano i conti con i limiti e gli errori di un sistema di rappresentanza che gioca sempre sul filo del fuorigioco, nel suo rapporto con la politica. Mentre Fiat è chiamata a un’operazione di chiarezza sulla sua realtà industriale. Potrà anche lasciare l’Italia, e del resto la sua centralità nella filiera produttiva nazionale è già ampiamente ridimensionata rispetto a quando l’Avvocato poteva dire che interesse nazionale e aziendale erano la stessa cosa. Ma se questa era la rotta valeva la pena di saperlo prima, magari evitando di raccontare all’intero paese che dai voti in azienda dipendeva il destino di Fiat in Italia. 

Questo è un paese strano, dotatodi energie inattese che può sopravvivere a tutto: alle macerie del dopo Berlusconi, e a quelle del dopo-Fiat. Tutto si può fare: basta crederci, e lavorare.  

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