Obama avrebbe già la vittoria in tasca se le prossime elezioni presidenziali fossero decise dalla politica estera. La sicurezza nazionale è l’unico argomento in cui gli americani, stando ai sondaggi Gallup, gli danno la sufficienza. Nessun candidato repubblicano accusa Obama di non essere un buon “commander in chief”, come invece affermava il guerriero John McCain nel corso della campagna del 2008. Sarà anche grazie alla squadra di eccezione di cui si è circondato (Hillary Clinton, Leon Panetta, David Petraeus…) ma la sua politica estera passa da un successo all’altro: dall’eliminazione di Bin Laden all’annuncio dei ritiro delle truppe dall’Iraq fino all’uccisione di Gheddafi. E il caso libico è l’esempio migliore per capire la filosofia di Obama.
Quando è esplosa la crisi libica, all’inizio dell’anno, Obama ha subito spinto perché gli Stati Uniti tenessero un profilo basso. Non solo perché il paese è ancora impegnato in altre due guerre molto costose, ma anche perché la Libia non rappresenta un fronte strategico prioritario per gli Usa. La strategia è stata subito chiara: neanche un soldato in campo, bombardamenti mirati, azioni diplomatiche per isolare politicamente il dittatore, aiuti all’opposizione interna. Nonostante il grosso delle attrezzature militari arrivassero dagli Usa, le azioni erano targate Nato e in prima fila c’erano Gran Bretagna e Francia. Alla fine il regime di Gheddafi è crollato – e il dittatore è stato ucciso – senza che un solo americano sia caduto. Costo dell’operazione: 1,1 miliardi di dollari, secondo il Financial Times. Un’inezia rispetto al bilancio delle guerre in Iraq e Afghanistan che si misura in trilioni di dollari.
Alcuni giorni fa il New York Times ha rivelato, in una straordinaria inchiesta di Eric Schmitt e Thom Shanker, che prima di sferrare l’attacco militare alla Libia, al Pentagono si svolsero lunghe riunioni per decidere se non fosse meglio, prima di far decollare i caccia, di vanificare le difese di Gheddafi con un attacco informatico: sarebbe stato possibile accecare i sistemi radar e i sistemi missilistici – distruggendo i collegamenti tra le diverse postazioni militari libiche – in modo da minimizzare i rischi per gli aerei della Nato e rendere l’attacco una passeggiata. Da circa un anno infatti il Pentagono ha reso operativo un costosissimo Cyber Command per dirigere tutte le operazioni di difesa e di attacco informatico. Alla fine, dopo una discussione molto travagliata, quella opzione fu scartata per questioni di opportunità politica: alcuni sostenevano che per lanciare un cyber-attacco contro un altro paese sarebbe stato necessaria l’autorizzazione del Congresso, altri temevano che una simile azione avrebbe reso manifesto a Cina e Russia il potere degli Stati Uniti nel settore. Un esempio choccante era già stato fornito un anno fa quando il progetto nucleare iraniano fu seriamente danneggiato da un virus (battezzato Stuxnet) dotato di una capacità distruttiva senza precedenti. Ma l’attacco all’Iran faceva parte di un’operazione “coperta” e nessuno ha mai confermato se quell’attacco sia stato lanciato dagli Stati Uniti, da Israele, o da un’azione combinata tra i due paesi. Al contrario, un’azione contro la Libia avrebbe avuto un’inequivocabile firma americana.
Quel dibattito al Pentagono mostra quanto sia grande la tentazione di Obama di abbandonare il coinvolgimento umano sui campi di battaglia. Assai meglio utilizzare gli strumenti offerti dalle tecnologie più avanzate. Se Bin Laden è stato eliminato con un attacco fulmineo realizzato da una squadra di Navy Seals, altri dirigenti di prima fila di Al Qaeda sono stati uccisi grazie all’uso di droni radiocomandati senza mettere a rischio vite americane. Persino due militanti di origine statunitense, tra cui Anwar al-Awlaki che aveva un ruolo di spicco nell’organizzazione, sono stati abbattuti in questo modo. (Tra i progressisti americani si è acceso uno stravagante dibattito sulla legalità di uccidere cittadini americani senza processo, con azioni mirate di killeraggio, dando per scontato che quelle azioni siano invece legali se l’obiettivo non è americano).
Molti accusano Obama di non avere coniato una dottrina nuova di zecca per dare un sostegno teorico alla politica estera del paese. Ma forse ha ragione Fareed Zakaria, opinionista di Newsweek, secondo il quale il mondo è ormai troppo complicato perché possa ancora esistere una dottrina a cui attenersi. Obama è un presidente pragmatico che sembra voler guidare il mondo stando dietro le quinte, di volta in volta al riparo di droni radiocomandati, di alleati fedeli come Gran Bretagna e Francia, o di super-virus come Stuxnet.
Mitt Romney, il repubblicano moderato considerato il probabile avversario di Obama nel novembre 2010, accusa Obama di voler così ridimensionare il ruolo degli Stati Uniti nel mondo. Si tratta di una esagerazione propagandistica, che però coglie – deformandola – la svolta multilaterale e pragmatica che Obama ha impresso alla politica di interventismo unilaterale e ideologico di George Bush.
La politica di Obama potrebbe rivelarsi saggia e preveggente già nei prossimi mesi. La vittoria in Libia, come fa notare Michael o’Hanlon, un’analista di Brookings Institutions, è una vittoria pericolosa. Non sarà facile trasformare la Libia in un paese stabile e democratico. Ma con la politica attuata fino a oggi Obama ha già messo le mani avanti. Se anche lo scontro tra le tribù locali portasse la Libia a un disfacimento sul modello somalo, sarà un problema di Parigi e di Londra, o forse di Roma se a quell’epoca ci sarà un governo credibile in grado di assumere decisioni concertate con i partner europei. Obama, che non ha certo voglia di accollarsi un’altra operazione di “nation building”, rispetta la sfera di influenza europea, adotta una politica multilaterale e si focalizza sui paesi che sono più direttamente sotto la sfera di influenza Usa, come l’Egitto, la Siria, lo Yemen.
Il solido pragmatismo tecnocratico di Obama ha finora funzionato. Ma tra un anno tutto ciò conterà poco se la disoccupazione interna sarà ancora sopra il nove per cento. A quel punto la morte di Bin Laden e di Gheddafi, e la saggia gestione delle guerre lasciate in eredità da Bush, conteranno poco. E Obama rischierà comunque la poltrona.