AUSTIN (TEXAS) – Vista un sabato sera dalla terrazza del bar Six nel cuore della movida di Austin, l’America sembra il nuovo Golden State. Code di studenti in abiti griffati scalpitano davanti ai locali notturni strapieni. Decine di risciò sfrecciano su e giù per la Est Forth Street. In strada, il ritmo soffice della western swing music delle balere si confonde con le telecronache urlate delle partite di football dei Texas Longhorns. «Adesso se vuoi diventare ricco devi venire qui», dice a Linkiesta Mark Aguado, 26 anni, un ingegnere di software modaiolo laureato al California Institute of Technology che, dopo alcune esperienze di lavoro dalle parti di San Francisco, ha deciso di spostarsi in Texas a caccia di opportunità. «Questa e’ gia’ la nuova Silicon Valley».
Il Texas Capitol e sotto la skyline di Austin (Flickr – stuck in customs)
Sempre più aziende si spostano dalla California, dove la pressione fiscale è elevata, al Texas, Stato campione della politica dello small government, ovvero della riduzione dell’imposizione fiscale. Dall’economia un tempo quasi esclusivamente petrolifera, il Texas a partire dagli anni ‘90 ha cominciato a diversificare ed è cresciuto in modo sensibile il settore dell’high-tech. Tanto che le colline intorno a Austin sono state soprannominate “Silicon Hills”. Il fenomeno poi ha subito un’impennata negli ultimi due anni. Un altro recente esempio di questa migrazione dalla California al Texas è il caso di eBay, il famoso sito dedicato alle aste online per la compravendita di oggetti, che ha aperto una sede a Austin e prevede di assumere un migliaio di persone. Senza contare aziende come Google, IBM e Intel, che non hanno trasferito il quartiere generale nel Lone Star State, ma hanno aperto grandi uffici regionali. E non solo le aziende high-tech puntano sul Texas, lo scelgono anche icone dell’industria californiana come la catena di fast-food In-N-Out Burger. Lo scorso maggio In-N-Out ha deciso di trasferire parte dei suoi nuovi stabilimenti nelle città texane Allen e Frisco (da non confondersi con la Frisco californiana).
Pur avendo diversi detrattori, gli ammiratori della discutibile ricetta economica texana apprezzano gli stessi ingredienti: bassa pressione fiscale e sindacati mansueti; solide finanze pubbliche favorite anche da costi della politica contenuti (la Camera dello Stato è composta da 150 rappresentanti pagati 20 mila 448 euro all’anno) e pacchetti di incentivi dello Stato e delle amministrazioni locali per aziende che vogliono trasferirsi o persone interessate a far partire una start-up in Texas; una legislazione che consente ai comuni di applicare ulteriori misure per allettare le imprese – come per esempio lotti di terra per costruire stabilimenti gratis o a prezzi stracciati – e una bolletta energetica fortemente calmierata, sussidi per pagare ancora meglio i dirigenti quadro, nonché le cosiddette tax holiday, diminuzioni temporanee delle imposte.
Al governo dal 1995 a oggi, i repubblicani, e in particolare il governatore candidato alle primarie Rick Perry, si vantano di aver trasformato il Texas nello Stato più business-friendly d’America. In realtà forse il vantaggio maggiore è costituito semplicemente dalla sua geografia. Più esteso di qualsiasi nazione europea, il Texas è lo Stato americano più vasto dopo l’Alaska. Il che si traduce in prezzi dei terreni contenuti e immobili convenienti. Con 130mila dollari si può comprare una casa da 140 metri quadri in zone vivibili di Dallas.
Vita notturna ad Austin, capitale del Texas (foto D.B.)
Una sorta di paradiso per le aziende, il Texas è però un mezzo inferno per molti dei suoi cittadini. Lo Stato spende meno di ogni altro per gli abitanti. Fa registrare la più alta percentuale di persone senza accesso sanitario, ha uno dei tassi di povertà più alti in assoluto, è al secondo posto per percentuale di carcerati, al primo per ragazze madri, e si segnala per il record negativo di avere il numero più basso di diplomati in America.
È forse proprio quello dell’istruzione il problema maggiore per il Texas. In un momento in cui ogni industria, anche quella petrolifera, richiede operatori sempre più tecnologici, la ricetta economica di Austin non sarà sostenibile se non verranno investiti quattrini in scuole e atenei più competitivi. Al contrario della California che vanta università di primissimo piano, tra cui Stanford e Berkeley, l’unico ateneo di peso in Texas è la piccola Rice University a Houston.
Benchè non superi ancora la California in termini di istruzione e sofisticazione, comunque, il Texas non è più una terra popolata esclusivamente da ruvidi conservatori amanti della pena di morte in stivaloni da cowboy. Austin, per esempio, è culturalmente effervescente. Capitale mondiale della musica dal vivo, ospita ogni primavera il South by Southwest, un festival delle note e del cinema animato da mostre e conferenze interattive, diventato negli anni molto atteso: attira ben due mila artisti. Per capire poi come le cose stiano cambiando in alcune zone del Texas e gli stereotipi vadano riveduti, basta andare a fare la spesa da Whole Foods Market. Società alimentare nota in tutto il mondo per rivendere alimenti naturali e prodotti biologici, e caratterizzata dalla responsabilità sociale, Whole Foods non ha la sua sede centrale nelle eco-friendly New York e San Francisco, ma proprio qui a Austin.
Il mantra di Austin negli ultimi dieci anni è stato proprio quello di tenersi alla larga da catene di multinazionali (vedi Wallmart), sostenendo invece i negozietti locali per mantenere le caratteristiche peculiari della città e non abbandonarla all’omologazione. «Sono venuto qui in cerca di lavoro cinque anni fa», ci racconta Collin Waits, un commesso del supermercato Whole Foods tatuato da capo a piedi, «da allora questa città non ha fatto che costruirsi una sua identità ecologista, responsabile e cocciutamente decisa a restare un po’ svitata. D’altronde il nostro motto informale è “Let’s keep Austin weird”, (“Manteniamo Austin strana, particolare”). Forse un giorno contageremo anche il Texas profondo».
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