Il numero di connessioni internet ad alta velocità (uguale o superiore a 144 kbit/s) ogni cento abitanti resta preoccupantemente bassa in Italia. E la situazione è difficile anche a livello statistico: i dati più recenti in possesso dell’Eurostat, che permettono un confronto con il resto d’Europa, risalgono alla metà del 2010.
Mercoledì scorso la Commissione europea ha deciso che che la banda larga non è un «servizio universale», ovvero uno di quei servizi minimi che un cittadino dell’Unione deve poter pretendere (il telefono fisso, ad esempio, lo è). Dopo varie discussioni, Bruxelles ha scelto di lasciare i vari Paesi membri liberi di decidere come comportarsi, senza imporre nulla dall’alto. La scelta è stata così spiegata dalla commissaria all’Agenda digitale, la olandese Neelie Kroes: «Vogliamo garantire che le regole del servizio universale facciano la loro parte nel portare i benefici dell’economia digitale ai cittadini europei, ma vogliamo evitare allo stesso tempo l’imposizione di un onere sproporzionato per il settore o una indebita distorsione del mercato».
La Ue ha però deciso di mettere in campo 9,2 miliardi di euro per aiutare gli stati membri a connettere tutti gli abitanti ad almeno 30 Mega entro il 2020 e a sviluppare nuovi servizi digitali. La stessa Kroes si è detta convinta che nei prossimi 10 anni lo sviluppo della banda larga possa stimolare nuove attività produttive del valore di mille miliardi di euro e creare molti milioni di posti di lavoro.
In Italia, dove il minimo obbligatorio resta l’arcaico 56k, la situazione non è per niente buona. E il digital divide rimane un grosso problema, che penalizza molti cittadini e piccole imprese, che sono impossibilitate a espandere il business e fanno fatica a restare competitive sul mercato internazionale.
Sempre in settimana, il Consiglio dell’Agcom, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, presieduto da Corrado Calabrò, ha approvato il «Regolamento in materia di diritti di installazione di reti di comunicazione elettronica per collegamenti dorsali e coubicazione e condivisione di infrastrutture». Il provvedimento, adottato al termine di un’ampia consultazione pubblica tra tutti i principali operatori di comunicazione elettronica, tra i proprietari di infrastrutture e gli Enti locali, fornisce una serie di regole finalizzate all’incentivazione dello sviluppo di reti a banda larga. «Le previsioni del Regolamento – si legge nella nota dell’Agcom – riguardano: la definizione di linee di indirizzo per l’accesso, da parte degli operatori, alle infrastrutture pubbliche utili alla realizzazione di reti di comunicazione elettronica sia per le reti dorsali dei collegamenti a lunga distanza, sia per le reti d’accesso in ambito cittadino; la definizione di obblighi di condivisione, tra operatori, delle loro infrastrutture per la realizzazione di reti di nuova generazione; l’istituzione di un relativo catasto delle infrastrutture». E, ancora, le nuove regole riguardano la semplificazione e l’armonizzazione delle procedure adottate dagli enti locali per consentire agli operatori la realizzazione sul territorio di reti a larga banda, attraverso apposite linee guida.
Ma, in attesa delle novità, l’Italia resta ben lontana dai livelli dei Paesi più avanzati d’Europa. E non c’è solo il problema della diffusione, ma anche quello della qualità. Sta infatti crescendo sempre più il divario tra la velocità pubblicizzata dagli operatori e quella reale. Spesso non si arriva alla metà di quella massima garantita.
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