C’è nel Palazzo e nel circuito mediatico un clima apparentemente maggioritario che si potrebbe riassumere nella formula dell’ “heri dicebamus”. Usata dalla vecchia classe dirigente liberale alla caduta del fascismo: e cioè quella di considerare il periodo appena vissuto come una funesta parentesi che, rapidamente archiviata, consentiva di riprendere il gioco politico nel punto interrotto due decenni prima. È palpabile il riemergere non solo della nostalgia ma anche del know-how della Prima Repubblica nella fase di passaggio di governo, anche se con tempi ristretti e sincopati, data l’urgenza imposta dal comando dei mercati.
E non è difficile intravedere nel complesso dell’establishment e nella fretta liquidatoria che sembra pervaderlo, il segno di una “normalità” rispettabile e faticosamente riguadagnata, magari con il concorso prezioso dell’immortale “o’ ministro” Paolo Cirino Pomicino. Così da riprendere, sotto l’usbergo prestigioso dell’esecutivo tecnico che rassicura i partner internazionali, quella soffice ed educata prassi di “affari in guanti bianchi” che orienta la politica democratica e morbidamente la condiziona.
Debellata l’”eresia”, concluse le scomuniche, la spinta a voltare rapidamente pagina è incalzante, e al massimo si lascerà ampio sfogo allo sberleffo dell’Italia frustrata e maramalda e all’ultimo trionfo parolaio dei tanti che contro il regime berlusconiano hanno costruito negli anni fortunate carriere e che rischiano adesso di restare forse senza lavoro e certo senza ragione di vita. Ma difficilmente si farà analisi approfondita dell’anomalia profonda del Cavaliere, della sua resistenza per numerose stagioni e soprattutto delle debolezze strutturali degli altri che ne hanno consentito non solo la fioritura ma un protagonismo così protratto nel tempo e comunque sempre riconfermato da un vasto, trasversale ed eterogeneo consenso popolare.
Per interpretarne il rapido appassire e la caduta repentina, ma in definitiva non tragica e neppure farsesca, occorrerà forse ripensare al suo sorgere improvviso e sorprendente, la “discesa in campo” del 1994. In quel tardo inverno e inizio di primavera di quasi diciotto anni fa – sia permessa la testimonianza personale – mi capitò, da caporedattore del Corriere della Sera, di venire invitato in diverse scuole lombarde per spiegare ai giovani esordienti alle urne non tanto il quadro politico in magmatica formazione dopo la ribollente e opaca stagione di Tangentopoli quanto il significato inedito del mutamento del sistema elettorale, ovvero il passaggio dal tradizionale “voto sincero” (quello con la proporzionale pura) al “voto utile” del nuovo sistema maggioritario. (Quel “Mattarellum” carico di pregi e difetti al quale chiede di tornare adesso un referendum richiesto da più di un milione di cittadini).
E dalle domande e dai discorsi di quei diciottenni emergeva allora, oltre a un naturale interesse a capire, il fascino che subito esercitava l’avventura del Cavaliere. Certo, probabilmente erano stati già predisposti nell’infanzia e nell’adolescenza dai messaggi della tv commerciale, con il suo linguaggio scanzonato e sintetico, e con la abitudine pubblicitaria. Eppure sembravano in più riconoscersi tranquillamente nella figura del protagonista, sentito come “uno di noi”. Uno cioè che, partendo dal nulla e senza pedigree, “ce l’aveva fatta” e quindi avrebbe potuto creare le condizioni collettive e le opportunità reali “perché ce la possa fare anch’io”. Non solo. Appariva in più l’esponente principe della “Brianza felix”, del territorio che aveva sempre espresso e
continuava ad esprimere il fervore di intrapresa, la creatività dinamica del benessere conquistato con il lavoro delle proprie mani.
In più lo sbarco in politica dell’imprenditore appariva una novità assoluta per mondi e ceti sociali diffidenti e antropologicamente estranei al ruolo delle istituzioni e al gioco democratico, confinato al momento delle urne dove si affidava fino ad allora una “delega in bianco” alle forze moderate e mediane. Invece era musica per le orecchie di quei giovani (e dei loro genitori e nonni) la promessa della “rivoluzione liberale”, del rifiuto delle liturgie bizantine del “teatrino della politica”, della modernizzazione di uno Stato che non “c’era quando serviva” (dalla sicurezza alle infrastrutture) e “c’era troppo quando non serviva” (dai ritardi burocratici all’oppressione vessatoria di fisco e adempimenti formali).
Quel “profumo di nuovo” e la speranza che si rimettesse in moto “l’ascensore sociale” anche per i figli di nessuno era allora un messaggio vincente. Nelle interviste agli altri attori politici si notava (in Umberto Bossi con rabbiosa consapevolezza, nel centristi del Patto Segni con malcelato timore) il dubbio di aver scosso fortemente l’albero della partitocrazia per vedere poi cadere i frutti maturi nel campo del “dilettante di successo”. A sinistra, almeno al Nord, nell’azione della “gioiosa macchina da guerra”, non c’era neanche il dubbio…
L’origine del berlusconismo stava lì. E l’amaro paradosso, più di tre lustri più tardi, è che i problemi sono gli stessi, marciti nel tempo e aggravati da una progressiva disillusione verso lo straordinario “venditore di speranze” che proprio su questo terreno, (al netto del malaffare, della corte mediocre e pure del bunga bunga), sembra aver definitivamente fallito. Nel suo tramonto il Cavaliere lascia molti “orfani“. È guasto “l’ascensore sociale”, la società è bloccata e costringe i giovani al perenne precariato, l’invadenza dello Stato è appesantita e fiscalmente al limite della sopportabilità. Eppure non si può non mettere mano laddove Berlusconi non ha potuto o non ha voluto. Il professor Monti non è per nulla ignaro dell’atavico conflitto tra “produttori e percettori”: la sfida adesso è tutta sua…
*ex direttore de La Padania