Incombe una domanda, oggi che Silvio Berlusconi lascia il Potere dopo diciassette anni e chissà mai se lo ritroverà: è stato un dittatore fallito o più semplicemente il miglior impresario dello spettacolo italiano? E una seconda, molto più privata per via di un’antica conoscenza, segue a ruota: dove è nascosto il cuore di quest’uomo insondabile, sconosciuto anche ai suoi migliori amici, privo di apparenti sussulti dell’animo, antropologicamente riconducibile a un essere senza sentimento?
Per la prima risposta, toccherà attrezzarsi di pazienza e tornare a quel tempo in cui gli balenò l’Idea. Geniale intuizione (a posteriori), ancorchè provinciale ed estremamente sbrigativa: prendere il Paese facendo tutto da sé, per via aziendale. Staccando uomini dagli uffici (e su questo ancor c’è dibattito in Mediaset, se fossero veramente i migliori, gli eletti, o non, piuttosto, gli scarti ai quali il Capo chiedeva il folle sacrificio, Marcello Dell’Utri a parte, naturalmente), attrezzando laboratori, formando la futura classe dirigente con regolari provini davanti alle telecamere (Viale Isonzo, Milano, 1993).
Per concludere che Silvio Berlusconi è stato, come si sente da più parti, un autentico dittatore, dovremmo innanzitutto stabilire di che cosa avrebbe bisogno una moderna dittatura. In questo senso, la sua discesa in campo, nel ’94, in realtà fu più un progetto di democrazia (parzialmente deviata) che un vero e proprio progetto di un regime. Nessuno, tanto meno un Gianni Pilo con i suoi marchingegni demoscopici, avrebbe potuto descrivere quell’orizzonte politico che poi le urne definirono in maniera compiuta con la sua prima, straordinaria vittoria elettorale.
Si è parlato moltissimo, e moltissimo ancora si parlerà, del potere della televisione e, applicato al nostro caso, del potere della Sua televisione. L’elemento immaginifico, che in questi casi viene ricordato, è l’adesione “spontanea”, all’idea meravigliosa, di tutte le sue stelle fininvestiane – da Vianello a Zanicchi a Bongiorno, ecc. – che a poche ore dal voto, e con un sorriso davvero convincente, rassicurarono i tele-elettori sulla bontà, non solo del progetto, ma anche d’animo, di un uomo che dal nulla aveva creato Canale 5, Retequattro e Italia 1. Sembrava un po’, con le dovute differenze, quel concetto così caro all’avvocato Agnelli quando sovrapponeva il destino aziendale a quello più generale: «Ciò che va bene alla Fiat va bene al Paese». Fatto sta che il Cavaliere vinse le sue prime elezioni e da quel giorno nessuno osò più dimenticare lo sfruttamento indecente dei grandi Mike e Raimondo, moderni federali al servizio del piccolo ducetto.
Quello sfruttamento era avvisaglia di regime? Per molti lo fu, ma qualche perplessità è lecito mantenerla, soprattutto nell’idea che ogni azione forte, risolutiva e definitiva, come quella di impadronirsi di un Paese con ogni mezzo possibile, doveva passare attraverso un progetto e non sull’onda di una necessità. E quel Cavaliere, il Cavaliere del ’94 non aveva un progetto, ma solo una grande, estrema necessità, da lui medesimo declinata in più di un’occasione: non finire in galera con le aziende espropriate, unico sopravvissuto a una Tangentopoli devastante. Un dittatore non avrebbe mai convocato ad Arcore due uomini miti e ragionevoli come Mino Martinazzoli e Mariotto Segni, pregando loro di prendersi sulle spalle quell’area di centro che poteva costituire un argine contro i comunisti. E se quelli avessero detto sì (ma onestamente non ve n’erano le condizioni), oggi probabilmente parleremmo di tutt’altro.
Qui non si vuole eludere neanche l’ipotesi più sottile, e cioè che Berlusconi sia diventato dittatore nel corso degli anni, in questo caso, allora, sì progettuale. Alcuni suoi gesti sparsi, peraltro, lo farebbero sospettare, come forse il più eclatante ed eversivo, quello di immaginare per il ministero della Giustizia un uomo, un amico, un avvocato d’affari, e poi un corruttore, come Cesare Previti.
Ma chi intenda cambiare il corso della democrazia con mezzi diversi che non la civiltà delle leggi e dei codici, dovrebbe sapere meglio di chiunque altro a quale tipo di società si sta rivolgendo e la sua disponibilità a farsi trascinare verso il basso. E se possiamo concludere che il Cavaliere è stato un profondo e autentico conoscitore del suo popolo sotto il profilo della semplificazione culturale, altrettanto non potremmo dire di lui per quanto è la sua abissale ignoranza (o anche repulsione) riguardo all’organizzazione politica di un Paese come l’Italia, che per moltissimi anni egli ha trattato allo stesso modo di come faceva da imprenditore con Confindustria, snobbandola, considerandola un orpello, se non addirittura un peso, standone fuori e vantandosene assai. Questo deficit di conoscenza, e la non volontà (l’inadeguatezza?) a colmare la lacuna, gli sono costati moltissimo sotto il profilo del rispetto e della considerazione. Non solo. Non poche volte la sua ignoranza/ingenuità è stata sfruttata senza pietà dalla politica più capace: vedi Scalfaro nel ’95, vedi oggi Napolitano.
Noi appassionati di lui, per motivi professionali e in parte privati, restiamo convinti ch’egli sia stato un uomo troppo disordinato, anche nel suo estremo cinismo, per essere un vero dittatore, ma che abbia compreso prima degli altri la parte molle dell’Italia, che era tanta e disponibile, e soltanto dopo quella più produttiva ma abbandonata dalla politica, fornendole una splendida giustificazione finto-liberale per opporsi alla sinistra conservatrice. Ma tutto ciò ormai appartiene al passato.
Resta il lato umano, come detto insondabile. C’è, in chi lo conosce bene, un rovello che non si placa e che può tradursi in una sola domanda: ma chi è davvero la persona che ho davanti? Di fronte a quel volto dolorante e insanguinato, colpito da un duomo di metallo, forse l’enigma ha cominciato a sciogliersi. E oggi, dimissionato da un’Italia che gli ha voltato le spalle, assume i tratti di una dolorosa confidenza.