Costa troppo ed è gestita male, per la Rai è l’anno zero

Costa troppo ed è gestita male, per la Rai è l’anno zero

Il futuro della Rai resta avvolto nella nebbia. C’è ovviamente da considerare il contesto politico e d’affari in cui si trova il servizio pubblico. 

Il governo e il ministro Corrado Passera, innanzitutto. Passera è responsabile del ministero dello Sviluppo economico e del dicastero delle Infrastrutture, ed è stato a capo per quasi dieci anni di una banca che ha interessi nel settore dell’editoria delle comunicazioni. Intesa Sanpaolo, da cui il doppio ministro proviene, è azionista del gruppo Rcs (Corriere della Sera) e, indirettamente, di una compagnia telefonica (Telecom Italia) a sua volta interessata ai progetti per la realizzazione della banda larga in tutta Italia.

Il sottosegretario all’Informazione e Comunicazione Paolo Peluffo, ex giornalista del Messaggero, già portavoce del governo Ciampi (1993) e poi di Ciampi ministro del Tesoro. Nel 1998 è stato dirigente dello stesso ministero, dove si è occupato di tutta la comunicazione per l’ingresso nell’euro. Di Ciampi è stato poi consigliere per la stampa durante tutto il settennato presidenziale. Infine, con Prodi dal 2006 al 2008 è stato capo del dipartimento informazione ed editoria della presidenza del Consiglio.

Completava il quadro l’ex sottosegretario all’Editoria Carlo Malinconico Castriota Scanderberg prima delle sue dimissioni. Titolare di studio legale a Roma, con esperienza nella difesa in giudizio davanti alle corti superiori, (Corte Costituzionale, Cassazione, Consiglio di stato, Corte dei conti), Malinconico è stato dal 2008 è presidente della Fieg, la lobby degli editori, che così prende direttamente in mano il governo delle proprie sorti. È stato a Palazzo Chigi prima come capo del dipartimento affari legislativi durante i governi di centrosinistra (1996-2001) e poi segretario generale con Prodi (2006-08). Di lui Repubblica aveva rivelato i rapporti e gli scambi di favore con la cricca degli appalti che ruotava attorno al costruttore Anemone e ad Angelo Balducci, altissimo funzionario statale, ramo Lavori pubblici e progetti speciali(Giubileo 2000, Teatro Petruzzelli di Bari, G8 della Maddalena, mondiali di nuoto 2009).  

Fuori dal governo, bisogna tenere conto anche di Corrado Calabrò, capo dell’Agcom, l’autorità delle comunicazioni, il cui mandato scade a maggio 2012; e del nuovo presidente dell’Antitrust, Giovanni Pitruzzella, che è stato avvocato di fiducia e anche consulente dello studio legale di Renato Schifani, presidente del Senato. Ovviamente, trattandosi di comunicazione, editoria, televisioni, non va dimenticato l’ex premier Silvio Berlusconi, proprietario di Mediaset. E ancora, l’altro storico rivale del Berlusconi editore, il gruppo L’Espresso di Carlo De Benedetti, che esercita un’influenza non secondaria sull’orientamento del centrosinistra.

In questo complesso scenario, politico e d’affari, la Rai si trova in una situazione non semplice. Il rischio, che poi negli ultimi venti anni si è sempre rivelato una costante, è che il gruppo televisivo di viale Mazzini non riesca a giocare in proprio, ma continui ad essere terra di scorribande di partiti e lobby di vario genere. Di sicuro, un vaso di coccio in mezzo a interessi più resistenti e meglio organizzatiQuesto mentre si continua a chiedere ai contribuenti di pagare un canoneannuo di abbonamento a un servizio radiotelevisivo pubblico (nel 2011 il costo è stato di 110,50 euro), di cui molti faticano a vedere l’utilità. Circa 4-5 milioni di famiglie non pagano il canone e sottraggono alla Rai circa 550 milioni di euro, altri 800-900 milioni sono evasi da associazioni, partiti, circoli, bar e aziende in genere.  

L’anno scorso gli incassi effettivi del canone hanno procurato alle casse delle Rai 1,6 miliardi. Questi soldi sommati agli incassi pubblicitari e ad altri proventi (commercializzazioni di diritti, noleggio di circuiti, ponti di collegamento, etc.) hanno portato ricavi effettivi del gruppo di viale Mazzini di 3 miliardi nel 2010. Il risultato si confronta con 4,3 miliardi dell’intero gruppo Mediaset, mentre il solo business italiano ricava 2,4 miliardi. Dal 2007, ultimo esercizio primo della crisi che ha investito il mondo dei media, la Rai ha visto perdere un quinto della raccolta pubblicitaria, più del doppio di Mediaset. Certo pesano i limiti sugli spot (il “tetto Rai”), ma sembra chiaro che nel biennio di crisi del mercato pubblicitario, e mentre il Cavaliere era a Palazzo Chigi, la Rai ne è uscita peggio rispetto alla rivale. Il 2010 si è chiuso con una perdita netta consolidata di 98 milioni; il ritorno all’utile (20 milioni) è atteso per quest’anno.

Sul piano dei costi poi la disparità è evidente. La televisione pubblica spende nel complesso 2,3 miliardi di euro contro 1,8 miliardi del business italiano del Biscione (2,3 miliardi includendo anche le tv estere e le altre controllate). Sul costo del lavoro che la differenza diventa vistosa: 542,5 milioni Mediaset (452,7 milioni la parte italiana) contro un miliardo e oltre della Rai. Ma l’alto numero di dipendenti della tv di stato (13.295 dipendenti), abbassa a 76mila euro il costo del lavoro medio per dipendente. Per i suoi 6.285 dipendenti la concorrente sostiene invece un costo medio di 86mila euro (96mila per i dipendenti italiani). 

Gli investimenti nel digitale terrestre, che a regime avranno assorbito circa 400 milioni, ha costretto la Rai a ricorrere ai prestiti, essendo insufficiente la generazione interna di cassa. Così alla fine del 2010 il debito era arrivato a 150 milioni, e per la fine di quest’anno è atteso almeno doppio.

Ed è improbabile che l’attuale dirigenza, con consiglio di amministrazione presieduto da Paolo Garimberti e la direzione generale affidata a Lorenza Lei, riescano a innescare un’inversione di tendenza, significativa. Alla Rai continua a mancare l’essenziale: pensarsi fino in fondo come un’azienda, con tutte le conseguenze. La formula mista servizio pubblico-tv commerciale mostra i suoi limiti, e ne fa il terreno di pascolo per partiti e lobby di ogni genere. Su questo pesa l’assenza di una vera concorrenza con Mediaset, una situazione che la crescita di Sky sul mercato italiano non ha modificato di molto, mentre La7 del gruppo Telecom ha rappresentato tutto fuorché una seria minaccia al duopolio. L’ultima novità sui conti è arrivata il 29 novembre, quando il cda della Rai ha approvato all’unanimità una serie di correttivi straordinari dal direttore generale Lorenza Lei, che a regime prevedono risparmi per 85 milioni, in aggiunta al taglio dei costi per 70 milioni deciso a maggio 2011.

Forse, mentre si ricomincia a discutere di privatizzazioni, varrebbe la pena prendere atto della realtà: dato il contesto generale e le inclinazioni nazionali, l’Italia non è in grado (e probabilmente non sarà mai in grado) di avere un servizio pubblico televisivo degno di questo nome. L’idea di una Bbc tricolore è probabilmente quanto di più improbabile possa realizzarsi in Italia. Tanto vale farsene una ragione e agire di conseguenza, specialmente in un momento in cui si ricomincia a parlare di privatizzazioni. Certo, anche risanata, la Rai non arriverebbe mai a valere quanto la quota del Tesoro in Eni. Ma del resto, per l’Italia, la cosiddetta “prima azienda culturale del Paese” è tutto fuorché strategica. Quello che fa potrebbe essere fatto da qualunque privato. E se proprio si vuole tenere un piccolo servizio pubblico, interamente finanziato dalla fiscalità generale, basta e avanza un canale digitale. Tutto il resto andrebbe venduto ai privati, magari spacchettandolo se questo aiuta a incassare di più, ovviamente regolando anche diversamente l’emittenza privata per non trovarsi con un solo canale pubblico, e un oligopolio privato. Meglio tenersi Eni e Finmeccanica, e vendere il blocco di viale Mazzini. E investire piuttosto nella realizzazione della banda larga.

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(articolo originariamente pubblicato il 29 novembre)
 

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