Impietriti, escono dall’aula senza muovere muscolo, tra le mani un certificato di morte politica, quel numero – 308 – che risuona macabro nel grande transatlantico della Camera, cadenza matematica di un tormento lungo che sta finalmente per concludersi. Come impiegati a cui è stato comunicato il fallimento dell’azienda, azienda madre, azienda padrona, azienda maledetta che ora sta per riconsegnarli a una libertà vigilata, i pidiellini portano a braccia, idealmente, i cartoni di un’intera legislatura, fotografia che richiama l’uscita malinconica dei lavoratori di Lehman Brothers, icona di un tempo malato. Si contano i traditori, li conta il Capo rigirandosi il foglietto tra le mani, lunghi minuti nei quali il pensiero – conoscendolo – non può che essere l’inevitabile: «Io vi ho fatti e io vi distruggo».
Pochi passi più in là, nel corridoio dove soggiornano barbiere e toilette, s’incontrano, ma solo per un caso, Valentina Aprea e Gabriella Carlucci, con il vostro cronista imbarazzato ma interessato terzo incomodo. La scena porterebbe almeno a una lacrimuccia, comprendendone i tormenti. Ma qui siamo in politica, ragazzi, e c’è da tenere a bada inutili sentimentalismi. Valentina, accorata, si rivolge come a un’ex amica: «Gabriella, ma cosa hai fatto, io capisco tutto, ma siamo stati elette con questo partito, siamo nate con Berlusconi e tradirlo no, io non lo faccio» E poi, con leggerezza lunare: «Siamo icone di questo partito, come possiamo lasciarlo?» Veramente, la secca ed elegante Gabriella non ha fatto un plisset, nel lasciarlo. Non ha telefonato a Silvio, non le avrebbe retto il fard, e si è presentata diretta diretta dal Pierferdinando nostro, che da bravo balenotto bianco se l’è subito mangiata. Adesso, la Carlucci rimanda accorata alla situazione del Paese, come un commissario Bce: «Ma come puoi pensare – Valentina – che si possa pensare di andare avanti così, io sono un sindaco e la gente mi insulta per strada, non si può continuare a fare del male all’Italia…» La chiudiamo, qui, sapendovi già esausti da questo minimo scambio di opinioni.
Intanto, è partita la caccia ai traditori, caccia fisica, caccia verbale, perché sono un bel po’, i deputati che sognano di avere tra le mani Francesco Stradella, parlamentare piemontese, tormentato sin dalla vigilia, quando ci raccontava che si sarebbe astenuto se anche la maggioranza lo avesse fatto. Le due cose, puntualmente avvenute. E quasi divertito, Stradella ci chiama da un antro segreto del Palazzo e ci chiede cosa succede, laggiù tra i dolenti mortali che ancora adorano il Capo al di là d’ogni disfatta. «Ci voleva – dice – questo passaggio, speriamo che ne prenda consapevolezza». Questo alle sei del pomeriggio, alle sei e mezzo sembra già tutto tramontato, con il Cavaliere che sale al Quirinale, apparentemente senza neppure la più pazza idea di dimettersi e invece, poi, eccola l’apertura.
Si sfarà sfiduciare in Aula, raccontano, vuole una fine degna della sua storia. Ma l’Italia conta qualcosa? No che non conta. Per capire, allora, meglio dirigersi dai leghisti dal volto umano, tipo Giacomino Chiappori, leghista ligure dai pochissimi peli sulla lingua, che ti spiega con poche immagini il perché di Alfano e non di Letta: «Perché Letta rappresenta tutto il marcio di Roma, tutti gli agganci con mondi che a noi non piacciono, perché Letta è il Vaticano, perché non è genuino e non dico che Alfano lo sia di sicuro, ma almeno è una figurina nelle mani di Berlusconi più di quanto può essere Letta».
Da Piccolo Teatro, pronte per un dramma shakespeariano, Daniela Santanchè e Melania Rizzoli sono l’immagine della disfatta, elegantissime, votate al sacrificio perché stasera è il giorno giusto e forse non ne torneranno più di così brutti. Non c’è sorriso, il volto è pietrificato persino oltre la triste attualità. Poco più in là, altrettanto elegante ma lieve, Deborah Bergamini elabora lutto e situazione con una piega più morbida: «C’è una zona grigia intorno al voto di oggi che non è sondabile, almeno non adesso con le emozioni ancora troppo vicine. E, soprattutto, c’è troppa gente instabile».
Già, troppa gente instabile. Qualcuno, però, appare nel pieno agio dei sentimenti, come un padrone di casa ospitale e divertito, a cui quel dramma non solo non interessa, ma che su quel dramma ci ride, ci sorride, e se lo gode. E’ Giulietto Tremonti, che a crollo avvenuto, se ne esce in Transatlatico con la sua faccia migliore da prendingiro e si gira tutto il transatlantico, negandosi nulla, solo che non parla, sorride e basta, e si tappa le orecchie quando una giornalista gli fa una domanda.
Ma stasera ha davvero vinto lui?