Fmi, 300 miliardi pronti per aiutare l’Italia

Fmi, 300 miliardi pronti per aiutare l’Italia

Il Fondo monetario internazionale sta pensando a un piano di sostegno finanziario per l’Italia. «È possibile che vengano aperte linee di credito per circa 300 miliardi di dollari, nel caso ci sia bisogno», dice a Linkiesta un funzionario dell’istituzione di Washington in via confidenziale. La crisi politica di Roma si sta risolvendo, ma rimangono due problemi irrisolti: i costi di rifinanziamento legati al debito italiano, quasi 2.000 miliardi di euro, e la precaria condizione del mercato bancario europeo, che vede gli istituti di credito del Paese sempre più isolati. «La missione in Italia è appena iniziata, quindi si deve attendere la sua conclusione», spiega a Linkiesta uno dei funzionari del Fmi. Tuttavia, le cifre che ballano per un eventuale intervento verso l’Italia si conoscono. E potrebbero non essere sufficienti.

Se è vero che l’incertezza politica italiana sta per essere fugata, è altrettanto vero che la crisi dell’eurozona pone l’Italia in una posizione di debolezza rispetto al resto dell’Ue. I primi contatti fra Tesoro e Fmi sono avvenuti a cavallo del 1 e 18 luglio, i giorni in cui lo spread fra i titoli di Stato italiani e tedeschi passò da 183 a 332 punti base. «Non bisogna stupirsi, verificare lo stato dei Paesi aderenti al Fondo è compito dello stesso Fondo», ci aveva detto una sherpa del governo italiano al G20 di Cannes. A meeting nella Costa azzurra la dialettica tra Washington e Roma aveva portato all’avvio del monitoraggio sui conti pubblici e sull’applicazione delle misure di correzione di bilancio da parte dell’Italia. La missione, guidata dal funzionario del Fmi Juha Kähkönen, deve tracciare, insieme ai tecnici della Commissione europea, la strada del consolidamento fiscale italiano.

La cifra che trapela dai corridoi del Fmi non è irrilevante. I 300 miliardi di dollari servirebbero a tranquillizzare il Tesoro italiano, che fra oggi e la fine del 2012 vedrà andare in scadenza circa 340 miliardi di euro di titoli di Stato. La modalità di sostegno arriverebbe grazie alle Flexible credit line (Fcl), oppure tramite gli High-access precautionary arrangements (Hapa) cioè i meccanismi di prestito volti a «garantire la concessione di prestiti di entità elevata anche in assenza di una crisi effettiva», come definito dallo stesso Fmi. Il tutto dietro a garanzia di un concreto programma di rientro dei conti pubblici. In alternativa, la Bce potrebbe attivare un meccanismo di prestiti con il Fmi, capace di girare all’Italia la liquidità necessaria. Questo passaggio non violerebbe i trattati europei, dato che nello statuto della Bce tale possibilità è contemplata.

Il maggiore problema è come reperire i fondi. Nelle ultime settimane il Fmi ha sondato sia la Cina sia la Russia nel tentativo di ottenere un appoggio, ma gli ostacoli sono apparsi, almeno per ora, insanabili. Le trattative stanno continuando in modo fitto, anche perché l’architettura finanziaria europea per la gestione delle criticità è ancora lacunosa. Il fondo di stabilità finanziaria European financial stability facility (Efsf) non è ancora pronto per poter essere utilizzato per un eventuale supporto dell’Italia. La Commissione europea sa che Roma è troppo grande per essere salvata e che non ci sono abbastanza fondi per mettere in piedi una rete di protezione. Proprio oggi il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato che per stabilizzare l’eurozona «l’Ue ha bisogno di 1.500 miliardi di euro». Una cifra monstre, ma che potrebbe essere vicina alla verità.

Sono due i motivi per cui la via potrebbe essere quella del bailout: i costi di rifinanziamento del debito e la situazione delle banche italiane. Questo nonostante nella giornata di oggi si sia alleggerito lo spread, cioè il differenziale di rendimento, fra titoli di Stato italiani e tedeschi, benchmark per antonomasia della solidità nell’eurozona. Lo spread fra Btp e Bund è tornato sotto quota 500 punti base, ma il livello rimane di assoluta vigilanza. La fiammata dei giorni scorsi, derivata soprattutto dall’instabilità politica,

C’è poi la situazione degli istituti di credito italiani. Strozzate da una crisi di liquidità che non sembra avere fine, le banche italiane potrebbero presto essere osservare la fuga dai titoli del Tesoro da parte delle compagini straniere. In un servizio esclusivo, l’International financing review di Thomson Reuters ha raccontato che i direttori finanziari delle principali banche europee sono sul punto di alleggersi i portafogli di circa 300 miliardi di euro di titoli italiani. A dicembre 2010, secondo i calcoli dell’European banking authority (Eba), l’organo europeo di vigilanza bancaria, fra i maggiori creditori dell’Italia c’erano BNP Paribas, con 28 miliardi di euro di titoli, e Dexia, con 15,6 miliardi. A ruota Commerzbank, 11,7 miliardi di euro, Crédit Agricole, 10,8 miliardi, e HSBC, 9,9 miliardi. Via via tutti gli altri colossi del credito, come Deutsche Bank, che nei mesi scorsi ha iniziato a coprirsi dal rischio della svalutazione dei Btp comprando Credit default swap (Cds). Se BNP ha ridotto la propria esposizione di 8,3 miliardi di euro, Commerzbank da inizio hanno a oggi ha tagliato 1,8 miliardi. La banca tedesca, per voce del suo direttore finanziario Eric Strutz, ha già comunicato l’intenzione di ridurre ancora il peso dei titoli italiani nel proprio portafoglio. Secondo Strutz è possibile che nel quarto trimestre ci sia una riduzione di 2 miliardi di euro. Stesso dicasi per Société Générale, che ha tagliato di 2,5 miliardi di euro da giugno a oggi, e Barclays, meno 1,2 miliardi. In questo clima di paura e diffidenza, a restare impigliate nella rete saranno le banche italiane, che già da settimane stanno utilizzando la Bce come unica soluzione per il mercato overnight.

L’Europa non starà a guardare. In attesa che il Fmi riesca a incrementare gli Special drawing rights (Sdr, in italiano Diritti speciali di prelievo), ovvero l’unità di conto dell’istituzione di Washington, Bruxelles sta cercando di evitare un collasso dell’euro. Dato il repentino peggioramento della congiuntura macroeconomica, con uno scenario recessivo all’orizzonte, potrebbe essere già troppo tardi.

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