Il perdente di successo Arpe ora punta verso Siena?

Il perdente di successo Arpe ora punta verso Siena?

No Arpe no party. Senza il 47enne banchiere di Monza, sconfitto nella battaglia per il controllo della Banca popolare di Milano, non c’è stato più niente da festeggiare. Professori e professionisti indipendenti che si erano candidati al consiglio di sorveglianza della Bpm con l’obiettivo di nominare Matteo Arpe consigliere delegato, non se la sono sentita di varcare il portone di Piazza Meda. Uno dopo l’altro hanno rinunciato al posto, seguendo a ruota il capolista Marcello Messori, professore di Economia nell’università romana di Tor Vergata e consigliere indipendente della Sator, la società di investimenti fondata da Arpe dopo l’uscita da Capitalia. A caldo della sconfitta assembleare, Messori aveva detto che «anche se in minoranza, voglio dare il mio contributo». Ma due ore dopo, è arrivato il contrordine-compagni: «Questo ruolo non mi consentirebbe, infatti, di affermare la mia visione», ha scritto il professor Messori. E così hanno fatto tutti gli altri candidati provenienti dall’inner circle di Arpe. Con tanti saluti ai bei discorsi sul ruolo delle minoranze, e alla sorti progressive delle banche popolari: no Arpe no board.

In un paese in cui le poltrone sono piezz ’e core, l’epilogo della cavalcata di Arpe & co. non deve però sorprendere. O meglio, sorprende solo chi non conosce da vicino il banchiere e la sua straordinaria capacità di stregare. Dai bei tempi romani di Capitalia attorno al banchiere si è andato costruendo una sorta di cerchio magico: «Matteo non ha nemmeno bisogno di chiedere, ci intendiamo al volo», spiega un accademico sotto severa promessa di anonimato. I professori, ecco. Hanno un debole per Matteo Arpe. La sua aria da manager a modo, elegante, colto, appassionato di matematica, piace. Piace alla gente che insegna, piace agli studenti.

Ma non sono i soli. Arpe piace anche, e molto, ai mercati finanziari e agli investitori istituzionali, naturalmente. In tempi in cui dà meno preoccupazioni un’impresa industriale in crisi che una banca in buona salute, nella City molti si ricordano ancora del “miracolo Capitalia”: aver moltiplicato fra cinque e sei volte il valore del titolo. Se non se ne ricordano, ci pensa Arpe a ricordarlo. A volte esagera.«Ho risanato Capitalia senza ricorrere alla finanza», ha affermato di fronte ai dipendenti della Bpm incontrati allo Star Hotel Rosa. Non senza suscitare qualche battuta in fondo alla sala. Ma questi sono dettagli.

Il tempismo della cessione a Unicredit dell’ex Banca di Roma, che Arpe era stato chiamato a gestire da Cesare Geronzi, è stato semplicemente perfetto. La strategia di Geronzi, che considerava chiusa l’avventura Capitalia e puntava alla presidenza di Mediobanca, costrinse il giovane banchiere a farsi da parte. Ma se Arpe fece il lavoro di ristrutturazione, il capolavoro fu di Geronzi: solo tre mesi più tardi, infatti, con lo scoppio della bolla subprime nella mezza estate del 2007, sarebbe stata tutta un’altra storia da raccontare.

Perdente nello scontro di potere, Arpe si però è portato a casa una buona uscita superlusso. Circa 50 milioni di euro, stock option incluse, secondo un calcolo dell’agenzia Radiocor. Non solo. All’attivo il  banchiere ha maturato un credito di stima e riconoscenza da parte degli investitori, o perlomeno di quelli, hedge fund in testa, che sono stati svelti a sbarazzarsi delle azioni Unicredit ricevute in concambio dei titoli Capitalia. 

Non è del resto la prima volta che il banchiere conquistava il favore dei grandi investitori internazionali tramite lucrose operazioni di mercato. La più memorabile resta l’acquisizione della Telecom Italia nel 1999 da parte della Olivetti di Roberto Colaninno tramite un’Opa ostile, di cui Arpe fu regista per conto di Mediobanca, nell’ambito di un pool di banche di cui facevano parte la Lehman Brothers, Chase Manhattan e Donaldson Lufking & Jenrette. Fu un clamoroso successo di mercato, la più grande scalata societaria della storia italiana, finanziata a debito, e insieme un disastro aziendale da cui Telecom non è più riuscita a riprendersi. Mediobanca, secondo Repubblica ci guadagnò 200 miliardi di lire in provvigioni, ma questo non impedì che si consumasse una rottura fra il giovane banchiere e l’amministratore delegato Vincenzo di Mediobanca, Vincenzo Maranghi. Pochi mesi dopo, infatti, il banchiere – che all’assemblea della Bpm ha rivendicato di essere stato “il numero due di Cuccia” – lasciò l’istituto e passò alla Lehman Brothers. Vincitore sul mercato, sconfitto nel braccio di ferro dentro la banca. A margine di questa storia, va rilevato che Messori, oggi alleato di Arpe ma all’epoca “consigliere economico per le privatizzazioni, assetti proprietari e finanza” dell’allora premier Massimo D’Alema, si oppose all’Opa Telecom, appoggiata dal governo. E per protesta rassegnò le dimissioni.

Gradito al mercato e alla grande finanza, dunque, ma anche alle autorità di vigilanza. Con le quale Arpe ha saputo costruire nel tempo una buona dialettica. Tanto che, oggi, negli organi della Sator figurano tre storici esponenti della Consob: l’ed presidente Luigi Spaventa, l’ex direttore generale Massimo Tezzon, l’ex capo della divisione Emittenti Giuseppe Cannizzaro. Anche in Banca d’Italia Arpe gode storicamente di stima e buone relazioni. Un ex ispettore della Vigilanza è nel collegio sindacale di Sator. E nella vicenda su Bpm, la considerazione verso Arpe è stata tale che il capolista Messori, pur privo di cariche societarie, poteva consultarsi “a titolo assolutamente informale” con l’autorità di vigilanza  su una bozza di statuto della Bpm gradita allo stesso Arpe.

Perciò in Via Nazionale sono stati ben felici quando Arpe si è fatto avanti nel salvataggio di Banca Profilo, di cui la Sator ha acquisito il 51% tramite un aumento di capitale, primo caso in Italia di controllo di una banca in capo a un fondo di private equity. Non è del resto con Profilo che il banchiere pensa seriamente di aggiungere il terzo grande trofeo al suo medagliere. La trimestrale pubblicata venerdì scorso mostra che i numeri sono davvero troppo piccoli per un pilota della stazza di Arpe. I primi nove mesi di Profilo si sono chiusi con un utile di appena un milione di euro (2,7 milioni al 30 settembre 2010, -61%). I ricavi (quasi 35 milioni, +2,6%) sono divorati da una struttura di costi pesante (33,7 milioni, +11,8%), su cui la parte del leone la fanno i costi del personale, cresciuti del 15,7% rispetto ai primi nove mesi del 2010. 

Di banche che hanno bisogno di ristrutturarsi oggi ce ne sono diverse, e qualcuna rappresenta un grattacapo per la Banca d’Italia e per l’intero sistema. Potrebbe esserci bisogno del manager giusto, capace di dare fiducia al mercato. Banca Monte dei Paschi di Siena è sicuramente fra queste. Arpe ha sempre ostentato distacco dalla politica, ma in concreto i suoi rapporti con il variegato mondo politico della sinistra sono sempre buoni. A Siena il suo nome circola da un po’. La Fondazione Mps, oggi in affanno per ricapitalizzare la controllata, è anche fra gli investitori Sator. Le opportunità non mancano. Anche se i tempi miracolosi della finanza dello scorso decenni sono andati, il mito del grande risanatore di Capitalia mantiene il suo fascino. Un fascino che, prima o poi, per essere duraturo, avrà bisogno di affermarsi anche nella finanza italiana dei gestori di potere politico: che anche a Siena non mancano.

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