Provate a immaginare un ciclista all’ultima curva prima dell’arrivo che vede d’un tratto la giuria spostare il traguardo molti chilometri più lontano. Pier Luigi Bersani assomiglia a questo nostro ciclista di fantasia. A mano a mano che la sconfitta parlamentare di Berlusconi diventava inevitabile per lo sfarinamento della maggioranza, Bersani con la sua coalizione bonsai, l’allenza di Vasto con Vendola e Di Pietro, sembrava prossimo ad ereditare la guida del paese. Con il voto anticipato, addirittura anticipatissimo, il segretario del Pd prendeva i classici due piccioni con una fava, la vittoria per la guida della coalizione e il successo nelle urne.
Invece Bersani ha dovuto fare un passo indietro, serio, sofferto, dignitoso e ben descritto da una sua frase che diventerà celebre: «Potevamo vincere le elezioni ma avrei trionfato sulle macerie». Gli hanno spostato il traguardo molti chilometri più in là. La domanda che molti militanti della sinistra si sono fatti un minuto dopo aver ascoltato le parole del segretario è se domani questa vittoria sarà ancora a portata di mano o se invece, dopo la cura Monti, prevarrà un nuovo leader di centro-destra, o un centrista alla Casini, o un rottamatore del centro-sinistra. Il gesto di responsabilità nazionale compiuto da Bersani, è questa la domanda di questi giorni, è stata una prova di egemonia, cioè “rinuncio a governare domani perchè dopodomani sarò più forte”, o un’involontaria presa d’atto di una sconfitta, appena oscurata dalla più grave sconfitta sofferta dal suo avversario?
C’è nelle parole con cui Bersani ha rinunciato al voto anticipato anche la maledizione del passato che perseguita la parte maggioritaria della sinistra. Penso a quella cultura della responsabiltà nazionale che i comunisti, ex e post, hanno imparato a celebrare fin da piccoli e che li ha spinti nel tempo a “farsi carico”, altra espressione cult, di scelte faticose e di rinunce dolorose in nome di interessi supremi. Figli del dio minore for ever, costretti sempre a dar prova di rigore e disinteresse. La storia della prima repubblica, fin dai primi giorni, è piena di episodi che rimandano a questi concetti. È anche capitato, nella Seconda, a un segretario di partito di dover rinunciare a una sicura vittoria elettorale perché l’alleato principale, forse per evitare il prevalere dei Ds sulla Margherita, chiese e ottenne la lista unitaria alle europee. Parlo di Prodi e di Fassino. Insomma c’è una sinistra abituata a comportamenti penitenziali.
Oggi tocca a Bersani fare il passo indietro, mettersi sulle spalle l’interesse generale che mortifica quello di partito e suo personale. È stato un passo indietro necessario e obbligato. Sono note le ragioni congiunturali che hanno spinto il Pd ad accettare il governo d’emergenza più volte evocato nei mesi passati, ma da Bersani mai veramente amato. È noto che il Pd non avrebbe mai potuto dire di no a Giorgio Napolitano. È evidente che la fuoriuscita di Berlusconi dalla scena politico-istituzionale (perché uscirà di scena anche se nel suo messaggio televisivo di ieri sostiene il contrario) valeva la pena di essere pagata con la rinuncia alla immediata rivincita elettorale su quel terribile 2008.
Detto tutto questo, non si può sfuggire però a un dato incontrovertibile. In Spagna, paese economicamente più fragile e di democrazia più recente, le dimissioni di Zapatero sono state accompagnate dal voto anticipato che potrebbe portare al potere i democristiani. In Italia, invece, si va verso un indispensabile governo tecnico guidato da Mario Monti. Dov’è la differenza? Diciamolo con brutalità. La differenza di fondo sta nella convinzione non solo che i mercati avrebbero reagito male a una dura campagna elettorale ma anche che l’alternativa a Berlusconi non sembrava in grado di rassicurare i mercati. Monti non solo è più rispettabile di Berlusconi ma anche di qualunque leader del centro-sinistra.
Il tema della doppia sconfitta, quella, enorme, di Berlusconi, e quella, minore, dei suoi oppositori, non piacerà a Bersani e ai democrat. Tuttavia è il tema della politica italiana. Il gioco dell’alternanza, quello che ha visto rincorrersi laburisti e conservatori, socialdemocratici tedeschi e democristiani, repubblicani e democratici in America, qui non si è potuto realizzare perché un contendente è annichilito e l’altro non sembra né pronto né autorevole. Nasce da qui la convinzione che non c’è alternativa al governo tecnico e che il governo tecnico sottolinei il default della politica, di tutta la politica, anche quella rappresentata dall’opposizione.
Quello che accadrà nei prossimi mesi sarà per Bersani una prova terribile. È facile immaginare che nel suo partito si moltiplicheranno le voci contrarie ad alcune, e alla più dolorose, scelte di Monti. Cresceranno di numero coloro che diranno che l’associazione che spinge per Statuto i propri aderenti “a donare volontariamente, gratuitamente, consapevolmente e anonimamente” è l’Avis e non il partito democratico. Nello stesso tempo cresceranno le manovre di chi cercherà un altro candidato e forse anche un’altra coalizione così da mettere in soffitta il patto di Vasto ma soprattutto lui, Pierluigi Bersani, l’uomo generoso e perbene che ha sacrificato una legittima ambizione pur di rendere un servizio al paese.
Il logoramento del Pd gli sarà addebitato, il suo discusso carisma gli sarà ricordato, anche la sua età, e la durata della sua carriera politica, saranno nuovamente rimessi al centro della riflessione e molti diranno che con un leader più giovane, più fascinoso, più determinato si sarebbe potuto offrire ai mercati l’uomo di stato della sinistra in grado di rassicurarli. Ovvero che bisognerà farlo nel futuro per non essere costretti a scegliere nel prossimo futuro fra Monti e Casini. Saranno discorsi ingenerosi e crudeli, ma il centro sinistra notoriamente non è la casa delle bambole. E nessuno vuole, come ricorda spesso Bersani, passare il tempo a pettinarle.