La fortuna di Bossi: ora ha il monopolio dell’opposizione

La fortuna di Bossi: ora ha il monopolio dell'opposizione

Nella settimana che ha cambiato di colpo l’assetto politico con la formazione del “governo tecnico” e la santificazione anticipata del professor Mario Monti, non si è colto forse che sul terreno delle forze in campo c’è almeno un altro vincitore, oltre al “centrismo” alla Casini e al ruolo sovrano del vero leader della sinistra, Giorgio Napolitano.

Si tratta, e forse lo si comprenderà appieno più avanti, del padre-padrone del Carroccio, Umberto Bossi, che, come è accaduto più di una volta nella sua lunga e controversa carriera politica, è stato di fatto “baciato dalla fortuna”. Infatti si ritrova oggi a gestire nelle aule il monopolio parlamentare dell’opposizione, che era ben più di quanto si aspettassero una base ribollente e sfiduciata e un partito confuso, prigioniero delle sue intestine lotte di potere.

Lo ha ottenuto per un concorso di circostanze che alla fine hanno tutte congiurato per portarlo a questo risultato, senza dover stracciare la cambiale di lealtà contratta con il Cavaliere, che è stata invece onorata fino all’ultimo voto di fiducia, e senza neppure assumersi la pesanti responsabilità di organizzare un qualsiasi “ribaltone”.

D’altronde, con il suo fiuto da sperimentato animale politico, già un anno fa (con la crisi della maggioranza provocata dalla fuoriuscita di Fini e dei suoi) Bossi chiedeva a gran voce “l’igiene del voto”. Non lo ascoltò allora Berlusconi e tutto il Pdl, ma neppure il suo partito, poco incline a rimettere in gioco le posizioni di potere (compreso il vasto sottobosco delle nomine) conquistate nell’ormai annosa esperienza governativa. Allora, in verità, i padani sembravano avere il vento in poppa, confortati dalle previsioni di sociologi e sondaggisti che preannunciavano nuove espansioni elettorali. Le brucianti sconfitte di primavera (non solo a Milano, ma in tante roccaforti leghiste), sconfitte tanto dolorose proprio perché inattese, avevano fatto esplodere le contraddizioni covate a lungo sotto la cenere e portato in superficie la forte disillusione dell’elettorato nordista, che non vedeva dopo tante aspettative giungere a compimento le tante promesse connaturate alla decantata rivoluzione federalista.

La Lega appariva nella turbolenta estate della tempesta finanziaria e dalle dure manovre correttive dei conti pubblici un partito avviato senza remissione al declino, con le esplicite e diffuse critiche al gruppo dirigente e il conflitto non più sotterraneo tra il “cerchio magico” intorno al leader sofferente e il vasto fronte dei sindaci e degli amministratori locali collegati all’interlocutore istituzionale, il ministro dell’Interno Roberto Maroni. E tuttavia, proprio quando sembrava ineluttabile il tramonto nella prigione dell’alleanza con il Pdl a sostegno di un incerto Berlusconi, ecco il “colpo di fortuna”. Altro infatti non è per il Carroccio la crisi politica consumata nel rapidissimo cambio di governo.

La Lega si “slega”, senza aver fatto nulla per provocare il mutamento: si slega dal recente passato che da tempo non dava più risultati all’azione politica, e si slega per il futuro dal sostegno obbligato e ampiamente maggioritario al governo di emergenza del professor Monti. Il monopolio dell’opposizione nelle aule parlamentari (meno, molto meno sul terreno sociale) consente alla Lega di ricompattarsi velocemente al suo interno e di ritrovare il legame con la base di militanti e (almeno in parte) con la platea di elettori disorientati e delusi.

Il dibattito parlamentare sulla fiducia al governo Monti non ha trasmesso in realtà il potenziale leghista. Ci si aspettava da Bossi un vibrante scenario polemico sull’Europa “matrigna” e il conflitto storico con il Sud del Paese, che purtroppo resta la nostra Grecia: si è assistito soltanto ai compitini culturalmente modesti di capigruppo del tutto inadeguati alla bisogna, al punto da far rimpiangere ai vecchi cronisti di Palazzo l’afflato retorico di Luigi Rossi, l’ottantenne giornalista romano che pilotò l’ingresso dei “barbari” nella fossa di Montecitorio, infiammando le aule con la prima narrazione leghista.

Fin che il fisico lo regge, Bossi ritrova comunque sul terreno politico quella condizione invidiabile nella quale è stato maestro, ovvero la “doppia linea” strategica dove può dispiegare il suo spregiudicato movimentismo. Ovvero rituffarsi nella natura popolare e popolana della Lega, che attira il consenso dei ceti medio-bassi di provincia, interessati alle tutele e a un minimo di sicurezza nella protezione delle già difficili condizioni economiche; e insieme, e senza contraddizioni, l’opportunità di incalzare il nuovo governo perché agisca presto nella riforma degli sprechi e degli apparati pubblici responsabili in gran parte dell’accumulo del debito sovrano.

Il paradosso è che si trovi di fronte (e solitario sulla sponda opposta) una compagine di governo dall’impronta di “èlite nordista”, chiamato dall’emergenza a attuare in tempi accelerati e tutti insieme quei provvedimenti di dimagramento, di prosciugamento delle sacche improduttive e di recupero di efficienza dello Stato che fin dal suo sorgere sono stati il leit-motiv, il “reagente chimico” che ha innescato e accompagnato l’ormai lunga avventura politica della Lega.

Nel doppio registro potrà ovviamente urlare contro la “macelleria sociale”, la riforma delle pensioni di anzianità e l’abolizione delle Province, ma insieme lasciar passare (se non sollecitare) elementi di razionalizzazione del sistema (che l’amico Tremonti aveva a lungo bloccato) a cominciare dalla revisione del patto di stabilità che consenta ai tanti Comuni virtuosi del Nord di spendere risorse già pronte, frutto di oculata amministrazione. E dunque un complicato alternarsi di attacchi e accordi che riportino una Lega a “mani libere” (anche se non più determinante) nel vivo del più sofisticato gioco politico.

E nel contempo far vibrare sul territorio l’elastico delle alleanze (non solo con il sodale Silvio) perché poi al voto, prima nelle città e poi per le politiche, si arriverà. Con insieme un’incognita e un incubo, ovvero il “tempo”. Perché infatti, se è vero che l’orizzonte del governo tecnico non sarà così breve, c’è il rischio di una legge elettorale nuova, pensata apposta per confinare i partiti “non omologabili” a presenze parlamentari di pura testimonianza.

E tuttavia un tempo più lungo, fino al termine naturale della legislatura, appare più fondato. Anche perché i “tecnici” sembrano sottovalutare la vischiosità e l’inerzia del sedimentato sistema degli apparati che prolunga, nel pachidermico percorso della burocrazia, la piena effettività delle misure che saranno prese. Da Mario Monti la Lega ha già ottenuto l’impegno pubblico di procedere nei decreti di attuazione del “federalismo fiscale” (che il Professore culturalmente non aborre). E nel “tempo sospeso” può giocarsi la sfida di rimotivare e tentare di fidelizzare nuovamente un elettorato smarrito e deluso, attenuando le responsabilità di una poco incisiva azione di governo. Non è la prima volta che la Lega sembra moribonda e Bossi un leader fallito: forse più di altre volte, come si usa dire nel linguaggio ruspante del suo popolo, “ha avuto davvero culo”…

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