BERLINO – La rinascita dell’Europa dovrà affidarsi necessariamente alla Germania. Da umile matricola tra gli stati post-nazionali, il paese è riuscito dal 1990 a ritagliarsi un ruolo centrale per il continente. Ha sfruttato tutti i vantaggi dell’euro, introducendo poi un modello commerciale ben integrato con le economie emergenti. La leadership economica tedesca era qualcosa di assodato, dipendente dai tradizionali settori produttivi del Sud e dell’Ovest, dalla Baviera alla Renania-Vestfalia. Per necessità o interesse, oggi la Germania deve iniziare a esprimere una vera personalità politica, ma essa è ancora incerta: se Monaco è un gigante, Berlino è ancora un adolescente alla ricerca di personalità.
Non aiuta in questa fase lo stile politico scelto da Angela Merkel nel secondo mandato. Dovendo affrontare pesanti incognite elettorali, ha deciso di basare le maggiori decisioni politiche su un’attenta analisi dei sondaggi. Saranno contenti i berlusconiani della prima ora: lo spirito di Gianni Pilo si aggira come uno spettro per il Bundestag.
Il problema è che i questionari, per quanto utili ai fini elettorali, sono disastrosi in merito ai temi di politica estera. Rimettere le valutazioni dell’interesse nazionale unicamente al giudizio popolare rischia di condizionare l’opera di governo verso posizioni schiettamente domestiche, identitario-nazionaliste (non “nazional-socialiste”, che è ben diverso) e fin troppo miopi.
La decisione di non intervenire in Libia è stata frutto dei sondaggi, non della Realpolitik. Era la prima prova della Germania da quando è tornata ad avere il primato politico dell’Europa, e Berlino non ha dimostrato grande lungimiranza. Non ci riferiamo alla scelta in sé di non intervenire: le ragioni e i dubbi dell’elettorato all’epoca erano più che leciti, e adesso è troppo facile sparare giudizi dopo la morte di Gheddafi. Il problema è stata l’incapacità di “fare sistema” nella questione diplomatica libica. È parso che l’atteggiamento tedesco fosse orientato a un edonistico “isolazionismo tedesco”: la Germania di oggi è andata a scuola dei grandi isolazionisti americani, da Thomas Jefferson a Bill Clinton.
Questo edonismo popolare si rintraccia anche nelle questioni economiche. Nei primi anni duemila la Germania ha deciso di attuare una ristrutturazione radicale del proprio sistema sociale e industriale, per potersi orientare alle esportazioni. In questo processo, la Germania ha sostituito i tradizionali fornitori industriali italiani, francesi e spagnoli con cinesi e indiani.
Ciò è convenuto dal punto di vista tattico-commerciale: ha consentito di creare un modello produttivo di altissima qualità e dalla struttura di costo molto efficiente. Il problema è che ha “impoverito” i partner della coalizione monetaria: all’uscita dalla crisi, a fronte di una crescita tedesca del 3,6% nel 2010, gli altri paesi hanno arrancato (Francia: +1,5%; Italia: +1,3%; Spagna: -0,1%). È “isolazionista” anche la Germania che affronta la crisi dei Pigs. Se la Merkel decide d’intervenire, deve subire i titoli a caratteri cubitali di Das Bild: «Siamo stanchi di dare soldi agli scansafatiche greci!». Se non interviene, deve soffrire i titoli più affilati del Financial Times Deutschland, con la comunità industriale terrorizzata da un fallimento continentale. Angela Merkel, in realtà, farebbe molto volentieri a meno del ruolo di “salvatrice d’Europa”. Non sa a chi scaricare il peso politico dei salvataggi. Forse gli “Eurobond” potrebbero aiutare, ma il cancellierato li guarda con scetticismo.
Non è detto che la supremazia tedesca sia definitiva: come sempre nella storia del nostro amato e maledetto continente, i ritmi politici sono dettati da un pendolo che oscilla tra Parigi e Berlino, retto quasi sempre da Londra. In fondo, la colpa della mancanza di un’Europa politica è tutta francese: Mitterrand non la voleva, e pretese l’annacquamento del marco nell’euro. La Germania ha imposto però i parametri di bilancio, creando un sistema che, con l’arrivo della Cina, ha consentito l’emersione tedesca. Adesso la palla è nel campo della Germania.
Ma dove ci porterà Berlino? Con i sondaggi non si governa: alla fine, leader e cittadino si guardano allo specchio, senza alcuna guida, alcun principio, alcun obbiettivo. Ma di guida c’è estremo bisogno: ciò che sta avvenendo in questi mesi, sotto la facciata della questione monetaria, è la realizzazione dell’unità politica europea. Le unioni doganali e monetarie si sviluppano sempre su base “egualitaria”; le unioni politiche federali, invece, avvengono nella maggior parte dei casi per volontà e iniziativa di una cultura centrale, che annette le altre. Ciò dipende da calcoli di interesse e dominio, o di sopravvivenza e necessità, come nell’odierno caso tedesco.
È successo negli Stati Uniti, nella guerra civile tra Nord e Sud. Tra Abramo Lincoln e Jefferson Davis ha vinto il primo, e i valori del Nord sono stati diffusi in tutto il territorio – anche se ci sono ancora resistenze. È successo anche in Russia, con l’Unione Sovietica; e in paesi più piccoli, come in Angola, in Nigeria, in Malesia, In Indonesia. In Europa la formazione dell’unità politica non sta adottando il linguaggio della guerra, ma quello dell’economia.
Forse noi italiani avremmo potuto ritagliarci un ruolo più ambizioso, ma ormai è tardi. In fondo, negli stati federali sono pochi i territori veramente produttivi, in grado di commerciare con l’estero e guidare il sistema dell’innovazione e dell’industria. Il resto della federazione vive a ridosso di essi, e solo così può sperare di raggiungere e conservare il benessere. Per questo, è vero che ciò che va bene per Berlino, va bene per l’Europa; ma è vero anche che, senza l’Europa, Berlino cade.
Più dei sondaggi, la Merkel dovrebbe iniziare a preoccuparsi della crescita. Il 2011 si chiuderà con un fenomenale +3,1%, ma per il 2012 è previsto un rallentamento all’1,5%, con risultati fin troppo sensibili alle esportazioni. La Germania non è un’isola: è il cuore di un continente. Far finta di essere l’Inghilterra non la porterà lontano, e non porterà lontano neanche noi.