Nigeria. Sedici anni fa il sanguinario regime di Sani Abacha faceva giustiziare Ken Saro-Wiwa. Insieme a lui altri otto attivisti del Mosop, l’organizzazione capeggiata dal celebre scrittore e poeta nigeriano. Si erano opposti allo strapotere di chi estraeva il petrolio nel Delta del Niger, Africa occidentale, una delle più grandi riserve del mondo. Fin dagli anni ottanta infatti Saro-Wiwa si fa portavoce delle rivendicazioni della propria etnia Ogoni, maggioritaria nella regione, nei confronti delle multinazionali responsabili di continue perdite di greggio che ancora oggi danneggiano le colture di sussistenza e l’ecosistema della zona.
Nel 1990 si fa promotore del Mosop (Movement for the survival of the Ogoni people) e grazie a lui il movimento ottiene risonanza internazionale con una manifestazione di 300.000 persone che Saro-Wiwa guida al suo rilascio da una detenzione di alcuni mesi comminata senza processo. Arrestato nel 1994, con l’accusa di aver incitato all’omicidio di alcuni presunti oppositori del Mosop, Ken Saro-Wiwa viene impiccato al termine di un processo che ha suscitato proteste da parte dell’opinione pubblica internazionale e delle organizzazioni per i diritti umani.
Dietro le inventate accuse di omicidio, il processo farsa e la drammatica sentenza, si nascondeva la volontà assoluta di mettere a tacere per sempre un uomo che solo due anni prima era riuscito a guidare la sua popolazione, quella degli Ogoni, in un’impresa storica: scacciare la Shell dai territori dell’Ogoniland, nel Delta del Niger. Ovvero lì dove la oil corporation con le sue attività, secondo le accuse, stava devastando l’ambiente e impoverendo le comunità locali. Da quel triste 10 novembre del 1995 Ken Saro-Wiwa è divenuto ancor di più un simbolo per gli impattati dai progetti estrattivi sparsi in tutto il pianeta.
Non a caso la rete internazionale Friends of the Earth ha deciso di rendere pubblico in questi giorni il suo ultimo rapporto sulle tante violazioni dei diritti umani perpetrate nei confronti degli attivisti che si battono per la tutela dell’ambiente e delle popolazioni locali. Attivisti che, come nel caso di Ken Saro-Wiwa, troppo spesso hanno trovato la morte a causa del loro impegno. E che ben di rado ottengono giustizia. Nel caso di Ken Saro-Wiwa, nel 1996 Jenny Green, avvocato del Center for constitutional rights di New York, avviò una causa contro la Shell per dimostrare il suo coinvolgimento nell’uccisione del leader ogoni.
Dopo anni di diatribe giuridiche, nel maggio del 2009 il processo ha avuto finalmente inizio. Si è chiuso dopo una sola udienza, dal momento che la compagnia ha subito accettato di pagare un risarcimento di 15 milioni e mezzo di dollari. La oil corporation ha precisato di aver patteggiato non perché colpevole del fatto, ma per aiutare il “processo di riconciliazione”. In tanti, però, sono certi che abbia svolto un ruolo di primo piano nell’assassinio di Ken Saro Wiwa – come dimostrerebbero anche documenti confidenziali divenuti negli anni di dominio pubblico.
In Ogoniland, gli impatti delle estrazioni della Shell sono ancora visibili. L’acqua, la terra e l’aria che respirano le comunità sono ancora inquinati. A confermarlo uno studio lanciato lo scorso agosto dal programma delle Nazioni Unite sull’Ambiente (United Nations Program Environment – Unep). Dopo aver visitato oltre 200 località e tratti di oleodotti per un totale di 122 chilometri, visionato 5mila cartelle cliniche, incontrato 23mila esponenti delle comunità e condotto analisi approfondite delle acque e del suolo in ben 69 siti, coprendo un’area di circa 1.300 chilometri quadrati, gli esperti dell’Unep hanno stabilito che serviranno 25-30 anni per pulire il territorio degli Ogoni dalle lordure delle compagnie petrolifere.
Leggendo si scopre che nella comunità di Nisisioken Ogale il livello del benzene, elemento altamente cancerogeno, eccede di 900 volte il limite previsto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Ma sono decine i pozzi d’acqua in cui l’inquinamento ha abbondantemente superato i livelli di guardia. Un po’ ovunque le riserve ittiche sono sparite del tutto e in 49 siti il terreno è saturo di idrocarburi fino a una profondità di cinque metri. Non è quindi più fertile, come invece era una volta.
Le devastazioni causate dallo sfruttamento petrolifero nel Delta del Niger non si limitano all’Ogoniland e al coinvolgimento della Shell. Tante, tra cui anche l’italiana Agip, le compagnie che operano un po’ ovunque nel sud della Nigeria – primo produttore africano di greggio, con oltre due milioni di barili al giorno. Una testimonianza al riguardo sarà fornita da video e da un rapporto che saranno presentati dall’Ong italiana Crmb(Campagna per la riforma della banca mondiale) a Roma il prossimo 22 novembre in un evento organizzato insieme ad Amnesty International e ad Aktivamente al cinema Aquila. Un’occasione per capire come per tante comunità del Delta del Niger il petrolio continui a essere una maledizione.
*L’autore è membro dell’Ong italiana Crbm, (Campagna per la riforma della banca mondiale)