Il 19 novembre scorso Linkiesta pubblicava un articolo in cui si denunciava il fenomeno delle commesse di negozio assunte, anziché con contratti di lavoro, mediante associazione in partecipazione. Da parecchi anni studio quest’ultimo contratto e il fenomeno e mi era noto poiché c’è giurisprudenza, sebbene non avessi un’idea delle sue dimensioni, come precisate nell’articolo suddetto.
Il contratto di associazione in partecipazione (che non ha niente a che vedere con l’associazione pura e semplice, tipo Lipu o Wwf), oggi disciplinato nel Codice civile (art. 2549 e segg.), ha radici molto antiche: gli studiosi sono abbastanza concordi nel ricollegarlo alla medioevale “commenda”, un negozio in cui una persona (un borghese, un nobile, talora un prelato) affidava denaro ad un mercante affinché lo impiegasse nei suoi traffici e glielo restituisse poi maggiorato di ¾ degli utili ricavati dall’affare. Solo ¼ andava al mercante: che tempi, eh?, eppure prosperava lo stesso. Se però l’affare fosse andato male non per colpa del mercante, il capitale dato a commenda non doveva essere restituito.
L’excursus storico non è fine a se stesso e serve a chiarire che l’associazione in partecipazione non è fatta per assumere personale, ma semmai per investire i propri risparmi: l’associato dà del denaro o beni in natura (es. immobili, brevetti) all’associante, di solito un imprenditore, per ricavarne utili se tutto va bene, o per perdere eventualmente anche tutto quanto dato se l’affare va male. È, dunque, una specie di prestito a rischio: si può guadagnare più di un mutuo (il cui interesse è fisso), ma si può perdere il capitale, mentre nel mutuo la restituzione è dovuta comunque.
Le difficoltà nascono dal fatto che in epoca contemporanea si è ammesso che il capitale dato dall’associato possa consistere, anziché in denaro o altri beni, nella propria prestazione d’opera. Qui l’intreccio con il lavoro subordinato si fa pericoloso: come distinguere uno che liberamente presta la propria opera a titolo di investimento in un’impresa, da uno che di fatto lavora come un dipendente e viene assunto come associato solo per pagarlo di meno e non versargli gli stessi contributi di un dipendente?
Messi di fronte a controversie concrete, nate solitamente da ispezioni Inps, i tribunali hanno messo a punto una serie di indici rivelatori di un rapporto di lavoro subordinato: il preteso associato osserva un orario di lavoro fisso, guarda caso coincidente con l’apertura dei locali dell’impresa? È soggetto agli ordini del titolare? Deve chiedere permessi per allontanarsi dal lavoro e deve concordare i periodi di ferie? Riceve dei finti utili, che invece guarda caso consistono in una cifra mensile fissa, anche se in teoria soggetta a fantomatici “conguagli” periodici? Quando il giudice ravvisa (e ciò avviene assai spesso: sono davvero poche le genuine associazioni in partecipazione con apporto d’opera) la presenza di un lavoro dipendente, riqualifica il contratto, cioè pone nel nulla la finta associazione in partecipazione e stabilisce la presenza del lavoro subordinato, con le relative conseguenze.
È opportuno, perciò, che chi si sente sfruttato all’interno di un rapporto come quello descritto si rechi da un avvocato del lavoro (di solito sono meno esosi degli avvocati “normali”) per far emergere la propria vera situazione. Il fatto è, però, che l’indebolimento del contratto di lavoro subordinato, cui stiamo assistendo ultimamente, rende più difficile in questa, come in altre ipotesi, una tutela effettiva. Se, una volta dichiarata la natura di lavoratore dipendente, io posso essere tranquillamente licenziato (quale miglior ritorsione) col pretesto di una “ristrutturazione” o di difficoltà economiche dell’impresa, potrei tutto sommato trovare più conveniente restare nella situazione di sfruttamento come falso associato.
Questo piccolo esempio dimostra come il retrocedere in campo di diritti, pur in presenza di una generalizzata “crisi”, significa porsi su un terreno molto scivoloso, in cui non vi è un limite allo slittamento all’indietro, con lo spauracchio di quel Medioevo in cui chi aveva qualche soldo faceva buoni affari con le commende, ma chi lavorava a mercede…
*Professore associato di diritto commerciale nell’Università di Torino
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