Cosa si vuole da un quotidiano? Mica troppo, in fondo, bastano le tre o quattro ragioni di base, che hanno scritto la storia del buon giornalismo: cane da guardia del Potere, distacco dalle aziende, buona scrittura, equilibrio e fantasia nella composizione degli argomenti. Certo, capitano anche giorni grami, dove qualcosa manca, mica per cattiveria o, peggio, per malafede, ma semplicemente perché non sei in forma, perché quel giorno le idee non vengono, perché la redazione non è brillante. C’è un solo aspetto che sul piano squisitamente ideale (ripetiamolo: sul piano squisitamente ideale) non è tollerabile: che escano delle marchette, quegli articoli che non sono intellettualmente pensati né prodotti esclusivamente dai giornalisti, ma che vengono, per così dire, sollecitati dall’esterno, quando non imposti. Ecco s’io fossi lettore (e lo sono più d’ogni altro) quando dovessi vedere una marchetta m’incazzerei come una bestia.
Anime belle, astenersi. Lo ricordo prima a me stesso, prima di farlo agli altri. I giornali si sostengono con la pubblicità e non con il venduto, che purtroppo non è sufficiente per mantenere le nostre baracche editoriali. E quindi, sempre più spesso, l’opera di mediazione è alla fonte del nostro lavoro, spiegandosi pochissimo, con le semplici ragioni del giornalismo, la pubblicazione di certi pezzi. Tuttavia c’è ancora una linea che non andrebbe oltrepassata, e che rappresenta in maniera plastica il confine tra il decoro e la compromissione, tra una certa idea del mestiere e la sua depravazione, tra la salvaguardia di concetti come la dignità personale e collettiva e lo svilimento (a prezzi bassissimi) di un intero patrimonio professionale.
Capitano giorni in cui uno si sente particolarmente sconfortato. Apre il (suo) giornale, apre più giornali, e in tutti ci ritrova la stessa notizia sparata a paginate e che non è – badate bene – la signora Merkel che racconta di Mario Monti come del suo ideale di premier perché fa riforme pazzesche. No, non è questa la notizia. La notizia, aprite bene le orecchie, è che le nostre straordinarie e commoventi Ferrovie dello Stato hanno appena inaugurato un Frecciarossa a più comodità, con la Seconda classe, la Prima, la Fichissima e la Superfichissima, una roba che in molte nazioni è persino routine, ma che nell’eterno Belpaese assume i tratti della rivoluzione giornalistica. Non si spiegherebbe altrimenti lo spiegamento di cronisti che le Ferrovie e Trenitalia del signor Mauro Moretti (molto opportunamente, dal loro punto di vista) hanno invitato a bordo offrendo anche ampio materiale cartaceo e fotografico.
Inutile dirvi dei pezzi. Che naturalmente non contemplano critiche e dunque viaggiano intorno al superlativo, perché – pensate un po’ – ai viaggiatori più brillanti (economicamente) offriranno anche un aroma di Vissani sotto forma di uno spaghetto magari sottovuoto. E pensate che con un centinaio di euro «il servizio di benvenuto, cibo e bevande, si arricchisce di un quotidiano». Piuttosto esaustivi i titoli: «Il Frecciarossa si traveste da jet», o anche «Il Frecciarossa con 4 «classi» (e il menu di Vissani)», e per finire «In pensione prima e seconda, sui Frecciarossa arriva la business». I cessi, peraltro, sembra restino gli stessi, ma non è il momento di fare i pignoli.
La domanda che un lettore, a questo punto, ha il diritto di porre (e di porsi) è la seguente: ma allora, per raccontare di questa iniziativa, un giornale come dovrebbe fare? Qui effettivamente cominciano i problemi, soprattutto se l’azienda in questione è un investitore pesante del giornale. L’obiettivo deve essere quello della mediazione «alta», che abbia il doppio registro di salvare la dignità del giornale e fare informazione corretta. Per prima cosa, ringraziare per l’invito ma declinarlo: stare ore e ore a stretto contatto con l’ad Moretti porta a una inevitabile sindrome di Stoccolma. Come seconda, darne uno spazio limitato sul giornale, perché l’evento è troppo suggestionabile e preparato da Ferrovie per essere genuino. Terza, dal giorno successivo testare la tratta e scriverne con cognizione di causa. È chiedere troppo?
Naturalmente, cari lettori, la severità che noi adesso abbiamo chiesto ai quotidiani, pretendiamo che sia la vostra stella polare nei confronti de Linkiesta.