Deve essere proprio di ferro la giacchetta di Napolitano che tutti hanno provato a tirare dalla loro parte senza mai riuscirci. Il presidente della Repubblica sta smentendo tanti suoi tendenziosi biografi che l’hanno spesso accusato di eccessiva timidezza politica, per non dir di peggio. Nella seconda parte della sua presidenza, quando solitamente l’inquilino del Quirinale sbrocca, Giorgio Napolitano ha tirato fuori fantasia e temperamento. La letteratura sul comunismo italico l’aveva sempre descritto come un personaggio sui generis. Intellettuale di solida formazione, ha sempre concesso poco alla platea politica, scontentando gli amici più cari e gli avversari più tenaci che tentavano di stanarlo.
Altero, elegante, pignolo in modo leggendario, è stato a lungo una promessa mancata del riformismo. Il suo viaggio nel Pci è stato segnato dalla eccentricità della sua posizione che ha condiviso con altri personaggi di altrettanta statura. Il termine “migliorista”, che nacque non da un apprezzamento ma da un’invettiva, non dà conto di quel crogiuolo di idee e di esperienze politiche da cui prende le mosse l’itinerario dell’attuale presidente della Repubblica. Il personaggio che ispirò lui e tutto il suo gruppo fu quella singolare figura di intellettuale e di politico che si chiamava Giorgio Amendola. Riformista senza complessi, leader carismatico amato dalle folle, Amendola rappresentò la variante socialdemocratica del Pci fino al punto di prospettare, in tempi difficili, lo scioglimento dei due partiti di sinistra, quello socialista e quello comunista, per dar vita a una forza di tipo socialdemocratico.
Amendola combattè i sussulti populistici e le tentazioni plebeistiche dell’organizzazione meridionale ma fu arcigno anche contro l’operaismo. Fu critico severo di alcune lotte operaie degli anni settanta, pose la battaglia contro l’inflazione come obiettivo naturale della sinistra, antepose l’interesse nazionale a quello di partito. Da questa scuola vennero alcuni dirigenti che hanno fatto la storia della sinistra. Personaggi diversi per temperamento, innamorati della politica, con una grande motivazione etica. C’era fra questi il latinista Paolo Bufalini, uomo di raccordo con l’Oltretevere, c’era quel personaggio delizioso e coltissimo che si chiamava Gerardo Chiaromonte. C’è la figura sanguigna di Emanuele Macaluso, eretico della prima ora che usa la penna come una sciabola.
In questo gruppo Napolitano era quello indicato non solo per la successione di Giorgio Amendola, ma anche per la guida del Pci. Da Amendola Napolitano ereditò il lungo contrasto con Pietro Ingrao e prima di Berlinguer sembrava l’erede designato. Lo fu anche dopo, ma ogni volta questo leader politico che sapeva l’inglese, il primo dirigente comunista autorizzato a sbarcare negli Usa, amico di Israele, a differenza di molti suoi compagni di partito, frequentatore della miglior cultura liberal della socialdemocrazia nord europea o anglosassone, ha trovato sulla sua strada la maledizione dell’essere arrivato troppo presto sulle svolte e di essere considerato troppo poco combattivo anche dai suoi più tenaci ammiratori. Nel suo partito godeva di rispetto, Occhetto ne faceva una spledida imitazione, ma sembrava che la sua carriera dovesse esaurirsi senza il colpo d’ala, senza la mossa del cavallo.
Negli anni il suo nome uscì lentamente dagli organigrammi di Botteghe Oscure per diventare sempre più spendibile per incarichi istituzionali. Presidente della Camera, impagabile ministro degli Interni, tuttora la generazione dei superpoliziotti al vertice del Viminale parla di lui con straordinario rispetto, sembrava destinato a una vita appartata. Eppure, come sempre accade per le leggende politiche, Napolitano non è mai stato un tipo tenero e privo di vis pugnandi. Per noi sessantottini pugliesi era “zio Giorgio” perché nel movimento erano impegnate due figlie di suoi fratello, architetto a Bari. La sua glacialità era contraddetta dal legame profondo che sapeva suscitare in collaboratori che negli anni mai l’hanno abbandonato e che lui non ha mai abbandonato. Le sue sfuriate contro il pressapochismo hanno aiutato molti dirigenti politici a trovare una barra diritta al posto del continuo agitarsi.
La verità è che Napolitano è figlio di una grande stagione politica, un tempo di grandi contrasti ma anche di cultura dello Stato e di amor di patria. La verità è che alcuni di loro, i più grandi, sono riusciti a levare l’ancora dalle vecchie certezze che li spinsero alla “scelta di vita”, titolo di uno straordinario libro di Giorgio Amendola, per trovare il gusto di nuovi obiettivi. Quando morì Vittorio Foa ricordai sul Riformista che la volta che chiesi, dall’Unità, al vecchio leader sindacale di scrivermi un ricordo di un compagno appena scomparso mi disse: «Mi fai sempre scrivere sul passato, io alla mia età voglio parlare di futuro».
E di questo si sta occupando Giorgio Napolitano, con la curiosità e la puntigliosità di cui è famoso. Non è forse un caso, quindi, se il timoniere della nostra nave sbattuta fra le onde sia un uomo che viene da molto lontano. Non è un caso se quest’uomo sia anche un leader politico con una profonda caratura intellettuale. La politica, quella vera, quella seria, ha bisogno di qualità che si acquistano nelle esperienze e in quella intellettuale sopra le altre. Accade così che il presidente scelto quasi per caso nel mezzo di uno scontro terribile fra sinistra e destra dopo il voto del 2006, l’uomo che sembrava destinato a scrivere solo saggi e libri di storia, oggi si trova sulla plancia di comando con gli occhi del mondo addosso per tentare di salvare uno dei più importanti paesi d’Occidente. Quella mancanza di coraggio di cui tanti l’hanno rimproverato è svanita nel giro di poche ore con un gesto di egemonia politico-culturale che solo uno come lui poteva fare.