Nuovi imprenditori, non importa quanti sono, ma che siano bravi

Nuovi imprenditori, non importa quanti sono, ma che siano bravi

Nel nostro Paese, ogni variazione anche minima nel numero di imprese viene letta come un evento epocale. Se lo stock delle imprese attive cala, si dice che è l’ennesimo segnale del nostro inesorabile declino, mentre se cresce si lodano le italiche doti di fiducia in se stessi e la capacità di costruirsi un futuro senza aspettare che la soluzione cali dall’alto. Se tra i flussi di nuovi imprenditori diminuisce il numero degli under 30, si bolla il fatto come conferma che l’Italia è davvero diventata il Paese dei bamboccioni. Se non c’è la giusta quota di imprenditorialità femminile, si ribadisce l’incapacità di valorizzare il talento di tutti. Tutte queste affermazioni hanno un fondamento di verità, ma dicono veramente poco sul fenomeno imprenditoriale.

Alcuni studi consolidati a livello internazionale (ad esempio quelli del Gem, Global Entrepreneurship Monitoring) ci confermano che il numero di imprese attive (stock) è un buon indicatore dello stato di salute di un’economia. Aggiungono che chi fonda nuove imprese (flussi) libera conoscenze e competenze che altrimenti rimangono inespresse in qualche lavoro che non piace o nella solitudine dell’inoccupazione, aumentando il livello di competizione e spingendo tutti gli altri a migliorare prodotti e servizi e a innovarsi. Ciò ha un impatto positivo sulla crescita economica. Da un certo punto in poi, si riduce la propensione a creare nuove imprese, ma si consolidano quelle esistenti: è questo dà un ulteriore impulso alla crescita economica.

Stando così le cose, non è scontato che l’aumento del numero di imprese sia sempre da salutare come un fatto positivo. Avviare una nuova impresa vuol dire affrontare l’incertezza e quindi sostenere un rischio. In alcuni casi, la scelta imprenditoriale è residuale e deriva dal non avere altre offerte di impiego o dal non avere alternative migliori o soddisfacenti. Si tratta di imprenditori poco propensi alla pianificazione e le cui imprese in genere non sono molto performanti o non operano in settori innovativi. In altri casi, la decisione di fare l’imprenditore ha lo scopo di cogliere una opportunità, che si scorge o addirittura ci si inventa, tanto che certi studiosi hanno definito alcuni imprenditori come degli audaci visionari, spinti da una fiducia (a volte sconfinata) nelle proprie competenze.

Tra le imprese nate per cogliere un’opportunità, stanno ricevendo attenzione quelle fondate da scienziati (si parla di spin off accademici). Le motivazioni che spingono uno scienziato a creare un’impresa vanno oltre il desiderio di successo e lo scopo di lucro e includono il tentativo di aumentare la propria reputazione dimostrando di saper trasferire i risultati della ricerca in prodotti o servizi fruibili dal mercato, la convinzione di poter contribuire allo sviluppo economico e tecnologico del proprio territorio; la creazione di nuove opportunità di lavoro per gli altri. In un lavoro dell’Università di Padova in collaborazione con la University of Michigan, condotto da una Ph.D candidate under 30 (Federica Destro), si misura il valore che tali iniziative possono generare e si sviluppa un modello di analisi della nascita di imprese ad elevato contenuto di conoscenza e ricerca che sposta il focus dalla conta del numero di imprese, all’analisi del capitale umano e relazionale dei fondatori, alle caratteristiche del team manageriale più correlate al successo delle nuove imprese, al ruolo “honest broker” dei servizi universitari preposti al trasferimento tecnologico.

Si è detto, citando gli studi del GEM, che non basta creare nuove imprese, ma ci si deve sforzare di consolidare (e far crescere) quelle che già ci sono. Per farlo servono gli arcinoti “interventi di sistema”, che speriamo prima o poi arrivino. Nel frattempo, meglio studiare i fattori che fanno di un imprenditore un buon imprenditore. Una ricerca promossa dalla Fondazione Cuoa e realizzata con il contributo di alcuni studiosi dell’Università di Padova (il sottoscritto e Alessandra Tognazzo, pure lei Ph.D candidate under 30) e di Venezia Ca’ Foscari (Fabrizio Gerli) ha analizzato un centinaio di imprese e individuato le competenze distinte degli imprenditori, collegandole ai risultati economico-finanziari delle loro imprese.

Il fattore che impatta maggiormente sul successo dell’impresa è stato definito entrepreneurial engaging exploitation, e identifica gli imprenditori che sanno mettere insieme un marcato orientamento all’efficienza, con la piena consapevolezza di come funziona un’organizzazione e di come si gestiscono le sue dinamiche interne, e soprattutto con una spiccata propensione al lavoro di gruppo. Questi risultati sono consistenti perché sono stati dedotti da un’approfondita analisi di ciò che gli imprenditori sanno (conoscenze), sanno fare (competenze), hanno concretamente fatto nella loro vita (performance). E sono anche utili, perché ci dicono che imprenditori “un po’ si nasce, un po’ si diventa”: non si può insegnare lo spirito di iniziativa o la propensione al servizio, ma si possono insegnare gli strumenti per orientare nelle giuste direzioni queste attitudini innate.

*professore associato di organizzazione aziendale e imprenditorialità alla Facoltà di Economia di Padova e direttore scientifico dell’area imprenditorialità del Cuoa di Altavilla Vicentina

Per approfondire:

L’Italia non è una repubblica fondata sul lavoro 
Il rapporto tra popolazione inattiva e popolazione occupata parla chiaro. Il livello medio nei Paesi sviluppati (Ocse) è pari al 72,5%. Nello Stato dove lavorano più persone, la Svizzera, è pari al 41,4. L’Italia è uno dei pochi Paesi a superare quota 100%. Questo significa che sono più quelli che non lavorano rispetto agli occupati (precari compresi). Peggio di noi fanno solo Turchia e Ungheria. Un po’ meglio fa la Grecia. 

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