Il Cairo ci ripensa e si riavvicina a Washington. L’autarchia egiziana dopo piazza Tahrir – dove in queste ore si sono verificati nuovi scontri tra polizia e manifestanti contro la costituzione che pare proteggere la suprema corte militare che controlla il Paese – è durata nove mesi, così come il ricordo delle pesanti riforme strutturali deliberate dall’ex leader Hosni Mubarak assieme al Fondo monetario internazionale nel 1991. Liberalizzazioni “forzate” che, stando ai critici del “Washington consensus”, hanno avuto l’effetto collaterale di aumentare la spesa pubblica nell’ambito degli accordi con gli Usa per la fornitura di armamenti. Fino a ieri il timore del colonialismo a stelle e strisce era il principale motivo dietro al rifiuto di nuovi aiuti da parte dei fautori del rovesciamento del lungo regime di Mubarak, che hanno rispedito al mittente, lo scorso giugno, l’offerta del Fmi più per motivi di legittimità politica del nuovo governo che per questioni di autonomia finanziaria, secondo la ricostruzione del Wall Street Journal.
Questo fino a ieri, quando Hazem al Beblawi, ministro delle Finanze, ha annunciato che «in linea di principio» il Consiglio dei ministri ha approvato il prestito da 3 miliardi di dollari (2,2 miliardi di euro) erogato dall’istituzione guidata da Christine Lagarde «entro una quindicina di giorni». «Ritengo che i prestiti da istituzioni straniere, in questa fase, ci possano essere d’aiuto», ha poi aggiunto al Beblawi. Le stesse conclusioni a cui sono giunti gli ispettori del Fmi al ritorno dalla loro missione nel Paese, il 3 novembre scorso.
La realpolitik del Cairo nasce in primis da esigenze di liquidità: dall’onda rivoluzionaria che ha destituito Mubarak a oggi le riserve del Paese in valuta estera sono diminuite del 30%, mentre i tassi d’interesse dei titoli di debito con scadenza a un anno ha toccato il 14 per cento, livello che, senza i pesanti acquisti della banca centrale egiziana sarebbe schizzato ancora più in alto. Secondo i dati di Bloomberg, gli istituti di credito locali nei primi 8 mesi del 2011 hanno incrementato i propri acquisti di bond del 36% a quota 209,3 miliardi di sterline egiziane (26 miliardi di euro circa), mentre stando ai numeri forniti dalla banca centrale del Cairo i titoli detenuti dagli investitori internazionali sono passati da 57,8 miliardi di sterline egiziane a dicembre 2010 agli attuali 17,1 miliardi (2 miliardi di euro circa).
Se per Il Cairo l’apertura verso Washington è una necessità, per gli Usa è un’opportunità per mantenere l’influenza sul quadrante mediorientale dopo i negoziati annunciati a fine settembre da al Beblawi con Emirati arabi, Arabia Saudita e Qatar per una linea di credito da 5 miliardi di dollari (3,6 miliardi di euro). Una sorta di cordone di sicurezza finanziario a trazione americana assieme agli alleati sauditi, in passato tra i principali finanziatori dei Fratelli Musulmani, scesi ieri e oggi in piazza Tahrir, e qatarini, che hanno invece allargato la loro influenza economica e militare sulla Libia.
Un mese prima dello sbarco degli ufficiali del Fmi al Cairo, come ha riferito la Reuters, alcuni diplomatici americani hanno incontrato i vertici del partito “Giustizia e libertà”, diretta emanazione dei Fratelli Musulmani, movimento che non era gradito a Mubarak. A distanza di dieci giorni dalle elezioni della prossima settimana, un appuntamento chiave non solo per il Paese, ma anche per Israele e Palestina, gli ex membri del partito nazionaldemocratico guidato da Mubarak sono stati di recente riammessi dalla Corte suprema egiziana alla competizione elettorale. Secondo l’Independent una vittoria dei Fratelli Musulmani potrebbe portare a un riavvicinamento tra Hamas, che non ha mai fatto mistero di ispirarsi a loro, e il partito di Al Fatah, guidato dall’attuale premier Abu Mazen, che proprio due giorni fa al Cairo ha incontrato Kaled Meshal, il numero uno di Hamas. Un esito che influirebbe non poco nei negoziati di pace con Israele dopo la liberazione di Gilad Shalit in cambio di 1.000 prigionieri palestinesi. La partita che si gioca da quasi un anno in piazza Tahrir, dunque, è piuttosto complicata, come dimostra il tempismo di al Beblawi, che non a caso ha spiegato che i soldi della comunità internazionale arriveranno nel giro di una quindicina di giorni, una volta chiarito l’esito delle urne.