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Loulou de la Falaise
(4 maggio 1948 – 5 novembre 2011)
Di padre francese e madre inglese (ex indossatrice). Nata in Inghilterra. Ideatrice di moda, e dei suoi accessori, gioielli in particolare. Molta celebrità per aver lavorato, in osmotica amicizia, con Yves Saint Laurent (dal 1972 al 2002). Persona e personaggio di un quadro generalmente nob, che può ritrovarsi a esprimere il suo contrario (in sfumature varie, snob). È morta giovane, a 63 anni, di malattia non ufficializzata. A casa sua, a Boury-en-Vexin, in Piccardia, Nord della Francia.
Spogliandola degli accessori terminologici usati dai giornali per ricordarla («musa ispiratrice di Saint Laurent», «bohemian aristocratic», «style resisting classification»), si capisce come Helmut Newton l’abbia centrata in poche foto all’Hotel Port Royal di Parigi, nel 1975: ossea, coi capelli tagliati come uno studente di Eton, nuda fino ai fianchi, si guarda in una specchiera verticale. È un terzo sesso un po’ narciso e un po’ sperimentale, o una Twiggy non di massa e non in passerella, o l’istantanea di una musa di se stessa. O anche la prova di nove muse in una, se si fa, in un baleno, la lista di quello che era stata fino ad allora, e di come si sarebbe ridisegnata nei tempi successivi. Un’ex studentessa poco incline alla scuola, in Inghilterra. Una ragazza con due caratteri di base: eleganza prevista dentro uno standard d’alto bordo, ed eccentricità senza rischi di guerra al “gusto” e alle sue astute metamorfosi.
Una fortunata creatura lanciata dall’inizio nella moda e nei suoi mestieri: dopo un assaggio di fotomodellismo, il facile balzo come junior fashion editor a Londra. Una felice ventunenne anni Sessanta toccata per sempre dall’incontro con Saint Laurent – nel 1968 – e diventata suo dialettico fianco nel produrre idee e forme concrete: gioielli, per esempio, calcolati in duemila ogni anno. Anche un’ex moglie in un matrimonio quasi postadolescenziale (aveva 19 anni, nel 1966) con Desmond FitzGerald, nobiluomo angloirlandese, morto il 14 settembre scorso; quindi, una moglie scanzonata (senza essere alluvionale) di una coppia definita «the most glamorous of the era»: il secondo marito è il francese Thadée Klossowski, figlio del pittore Balthus.
E poi, una newyorkese d’adozione nel godersi la vita, la giovinezza, e le arti nuove di quei begli anni Settanta: grandi feste e notti allo Studio 54, una delle capitali urbane di Andy Warhol, oltre che cartello segnaletico di un’epoca. Al centro di sé, una figura scoordinata ad arte nel vestirsi, nell’apparire, e nel dettare, per i corpi delle donne, una molto meditata immaginazione al potere: «Per avere stile, devi inserire un elemento-sorpresa; mettere insieme elementi improbabili, come un maglione da campagna con una collana di diamanti, o un completo-pantaloni a righe tennis con una spilla in un delicato rosa tenue». A sprazzi, uno spirito a cui non mancava la battuta, per lo più decorativa: «Non esco di casa senza il mio passaporto e la mia indipendenza». Alla fine, negli anni più adulti, una presenza di famiglia fra le famiglie, e le case, che a Parigi hanno fatto Storia, e che oggi tengono, all’antica, la cronaca serale. E così, durante una cena, Loulou, parando, senza troppa ansia, un eventuale vuoto di conversazione col proprio vicino di posto, poteva informarlo sull’attitudine regolata di certi weekend in campagna, da amici di lunghissimo corso. Così: «Quand on va à Lafite, parfois on boit du vin. Mais très peu…».
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Alfonso Cano
(22 luglio 1948 – 4 novembre 2011)
Di Bogotá, guerrigliero, e, da tre anni, capo delle Farc colombiane, le ultime forze armate rivoluzionarie dell’America latina. Aveva 63 anni, è stato ucciso a Suárez, dipartimento di Cauca, nel Sudovest della Colombia, durante uno scontro con i soldati del governo. Un braccato numero uno, da quando dirigeva la guerriglia, e con duecento mandati d’arresto. La sua morte fortifica il presidente Juan Manuel Santos Calderón che ha fatto interrompere i programmi radiotelevisivi per l’annuncio di quell’«avvenimento storico».
Cano era il nome di lotta. Si chiamava, all’origine, Guillermo León Sáenz Vargas, di buona famiglia, laureato in Antropologia all’Università della capitale, marxista dai vent’anni in poi, convinto e attivo nella lotta armata dal 1970. Quando quella scelta «era percepita da molti universitari colombiani come la forma più alta di impegno politico» (così ha spiegato il regista Leandro Duque, ex compagno di classe e di partito di Sáenz Vargas, poi Cano).
Era anche un «tipo molto studioso, non particolarmente carismatico, venuto al mondo per scrivere. E, come la maggior parte del mondo, amante delle feste e delle ragazze». Guardando le sue foto, si coglie di nuovo una sensualità maschile d’epoca, anni Settanta, partigiana: un colbacco di capelli scuri, la barba compatta e lunga, la miopia e gli occhiali spessi che la evidenziano, un viso largo, e un’espressione sostanzialmente magnanima. Un tipo di intellettuale urbano a cui le Farc affidavano, nei primi anni Novanta, delle prove di negoziato col governo. Un niente, di fatto, o di concluso. Anche se Cano, con le sue riconosciute attitudini – discrezione, senso pratico, apertura alla pace – ci avrebbe riprovato, senza esito, con dei contatti interposti, proprio negli ultimi tre anni. Nella regione di Caguán.
Da quando era diventato il capo, ha passato più tempo a nascondersi che a guerrigliare, tenendo comunque fermo un suo programma strategico: ristrutturare le Farc in piccole unità mobili, soprattutto nel meridione occidentale del Paese. Dove il film della sua morte verrà ricordato nei suoi tempi effettivi, e in un’ultima immagine: lui cadavere, imberbe (si era tagliato la barba), ucciso sul terreno da una raffica avversaria, dopo essere stato ferito durante un bombardamento mirato sul luogo dove si nascondeva. Il tutto, fra le ore dell’alba e la mattina piena.
Howard Eliot Wolpe, III
(3 novembre 1939 – 25 ottobre 2011)
Ex deputato democratico americano, dello Stato del Michigan, nato a Los Angeles, e laureato in Scienze politiche al Massachusetts Institute of Technology (Mit) di Boston. Una delle prime persone a cui Nelson Mandela ha telefonato, nel 1990, una volta libero. È morto a quasi 72 anni, a casa sua, nella città di Saugatuck, Michigan. Per cause non comunicate in pubblico.
La toponomastica di Città del Capo o di Johannesburg potrebbe oggi ricordarlo, e uno di quei film americani costruiti sul confronto – in nome dei principi – fra cittadini e governo, ne farebbe il personaggio centrale. Una ostinata, e pubblica, “civil voice” che riesce anche a battere il presidente degli Stati Uniti sul terreno della geopolitica.
È esattamente quello che Howard E. Wolpe – californiano, figlio unico, politologo e poi congressman iperdemocratico – ha fatto una trentina d’anni fa: detestando il regime dell’apartheid sudafricano, e neutralizzando la prudenza conservatrice di Ronald Reagan. Tutto si è svolto all’interno delle istituzioni-base, il Congresso e la Casa Bianca. Wolpe presiedeva la Commissione Affari africani del Parlamento, e stendeva, nel 1986, un Anti-Apartheid Act con queste sostanziali direttive: sanzioni alle imprese americane che facevano affari con Pretoria, e revoca di tutti i tipi di investimenti del governo (finanza e armi, soprattutto) in Sudafrica.
Significava l’America capofila in un intervento morale e globale che i principali Stati dell’Occidente avevano già adottato. Ma Ronald Reagan, il presidente, si opponeva ufficialmente in nome della «lotta all’influenza sovietica», caratterialmente perché era anche «very pro-business» e puntava a un «constructive engagement» con Pretoria per un eventuale smantellamento del razzismo di Stato.
In concreto, la Casa Bianca poneva il veto a quella proposta di legge: due volte, ma il secondo veto veniva superato da una maggioranza di repubblicani e democratici sia alla Camera che al Senato. «Larghe intese», si dice in Italia, raggiunte per la qualità di quel testo, per la tenacia e la forza di convinzione di Wolpe, e per l’importanza della posta in gioco. Di cui lo stesso presidente si rendeva conto, dichiarando dalla Casa Bianca: «La minoranza bianca abbandonerà l’apartheid e accetterà di negoziare con una credibile leadership della maggioranza nera quando arriverà alla conclusione di avere più da perdere che da guadagnare mantenendo il regime di segregazione». Era fatta (cioè le sanzioni passavano). Con una dichiarazione ancora «pro-business», ma aggiornata. E con un avvenire vicino: pochi anni dopo, la credibile leadership della leadership nera (Mandela) usciva trionfante da 26 anni di galera. E non si sarebbe dimenticata di dare un colpo di telefono a un amico americano.
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