A Siena nessuno ha voglia di intestarsi la più grande disfatta che si sia abbattuta sulla città dai tempi della battaglia di Scannagallo, quando l’antica repubblica capitolò di fronte alle forze fiorentine. La sconfitta è orfana, si sa. Ma è un fatto che chi avrebbe dovuto proteggere le antiche sicurezze ha contribuito ad abbassare le difese. Stavolta, però, non c’era da difendere nessuna repubblica. Solo custodire e amministratore un tesoretto accumulato per generazioni. E non c’erano assedianti alle porte.
Per scardinare i forzieri sono bastati le ondate di vendite sui mercati finanziari. Hanno travolto prima i titoli di stato italiani, poi la Banca Montepaschi, che sui Btp aveva puntato una somma pari a oltre 3,5 volte il suo patrimonio, e infine la Fondazione Mps, che a sua volta ha scommesso quasi tutto il suo patrimonio sulla banca. Errori fatali di cui nessuno però a Siena si vuole assumere la paternità. Non l’avvocato di Catanzaro a cui i senesi negli ultimi cinque anni hanno affidato la guida della banca: Giuseppe Mussari; non il custode del tesoro della Fondazione Mps: Gabriello Mancini; nemmeno il sindaco di Siena Franco Ceccuzzi, che fin qui ha gestito le nomine che contano, o i suoi predecessori o gli altri circuiti politico-lobbistici che conducono gli affari pubblici e privati nella città del Palio.
Tutti oggi sono costretti ad accettare quello che hanno tentato di evitare per anni: perdere il controllo della banca. Un obiettivo che, da quando nel 1990 venne avviata la riforma del sistema bancario (legge Amato), è stato perseguito con ogni mezzo. Messo per iscritto nelle delibere del consiglio comunale. Recepito dallo statuto fondazione, che prima di Mancini, era guidata da Mussari. E ribadito in ogni occasione, inclusi i bilanci di quest’ultima. Un obiettivo che era, nella sostanza se non nella forma, contra legem.
Furbizie italiche. Parlando al consiglio comunale, ieri, il sindaco Ceccuzzi lo ha lasciato intuire: «Dobbiamo stare attenti in ciò che si scrive, a rispettare la legge,che è cosa diversa dalle consuetudini con le quali questa comunità si è approcciata al tema del 50 per cento ed al tema del controllo che, sappiamo, ha delle definizioni diverse da quelle che comunemente noi utilizziamo». Per legge, infatti, le fondazioni con patrimonio superiore a 200 milioni (ed è il capo di Mps, Cariplo, Crt, Cariverona, Compagnia di San Paolo) non possono detenere il controllo delle banche che avevano originato. A Siena, invece, si sono sistematicamente adoperati per vanificare, nei fatti, questo obbligo, pur rispettando la lettera della legge.
«Con la cosiddetta Legge Ciampi, la 461 del 1998, e il relativo decreto applicativo n. 153 del 1999, alle fondazioni fu imposto un obbligo opposto: quello di rinunciare al controllo delle relative banche», come spiega il sito dell’Acri, l’associazione delle fondazioni di origini bancarie e delle casse di risparmio. La partecipazione è rimasta appena al di sotto della soglia del 50% del capitale ordinario. Un livello più che abbondante per mantenere il controllo della gestione ordinaria. Nelle assemblee straordinarie, in cui si decidono fusioni e aumenti di capitale, la fondazione ha mantenuto invece la maggioranza dei diritti di voto fino a pochi mesi fa, quando ha dovuto vendere un pacchetto di azioni privilegiate per finanziare la sottoscrizione dell’aumento di capitale di giugno.
Scandalo al sole. A Siena tutti lo sapevano, e tacevano. Nella relazione all’ultimo bilancio, il collegio sindacale della fondazione ha messo per iscritto di «non aver rilevato operazioni manifestamente azzardate o tali da compromettere l’integrità del patrimonio». Nessura censura sugli obbligi di diversificazione del patrimonio, imposti dalla normativa (articolo 7 del D.Lgs. 153/99). Le voci dissenzienti all’interno della struttura sono state messe a tacere o allontanate. Basti citare il caso clamoroso di Nicola Scocca, responsabile della direzione finanziaria dell’ente, ufficialmente licenziato per motivi tecnico-organizzativi: «Nell’ambito dei mutamenti della struttura organizzativa della nostra Fondazione è stata disposta, con delibera del 29 luglio 2008 della Deputazione amministrativa (il cda, ndr), l’abolizione della direzione finanziaria», si legge in una lettera dell’ente presieduto da Mancini. Sul licenziamento è in corso un giudizio di appello a Firenze, mentre in primo grado il giudice di Siena ha dato ragione alla fondazione, ma è interessante notare che motivi di contrasto con i vertici erano sorti su tematiche come la diversificazione del patrimonio, le valutazioni degli investimenti, i controlli interni, e persino operazioni finanziarie realizzate senza che ne fosse informata la direzione finanziaria.
Non solo Siena taceva, per la verità. A Roma, le autorità di vigilanza hanno tollerato. Non risulta che la Banca d’Italia abbia mai intrapreso azioni per ottenere il rispetto anche sostanziale della legge. Niente di lontanamente paragonabile su quanto è stato fatto, sempre in tema di governance, sul caso, ben minore, della Banca popolare di Milano. Il Tesoro, che esercità la vigilanza di legittimità sulle fondazioni, ha lasciato correre. Ha anche consentito che la Fondazione Mps si indebitasse (600 milioni) per sottoscrivere l’aumento di capitale di 2 miliardi varato lo scorso giugno. Ma, scrivevano i quotidiani, fra Mussari e il ministro dell’Economia e delle Finanze Giulio Tremonti c’era un patto, tanto che veniva ritenuto “più tremontiano di Tremonti”. E il patto lo si legge nei bilanci della banca.
Dal 2007, anno dell’acquisizione di Antonveneta – pagata la folle cifra di 9 miliardi di euro (esclusi interessi e spese) quando era esplosa da mesi la bolla dei subprime –, l’esposizione di Rocca Salimbeni in Btp è esplosa. Era, fra titoli per negoziazioni e portafoglio di proprietà, poco sopra i 2 miliardi. L’anno successivo era stata persino limata. Nel 2009, però, Mussari si gioca il tutto per tutto: l’esposizione sale a quasi 16 miliardi e arriva a 25 miliardi nel 2010.
La politica, e il centrosinistra in particolare, che ha fatto i giochi di potere nella fondazione e nella banca, ora tenta di chiudere la stalla. Ma i buoi sono scappati, e qualcun altro ci ha guadagnato. Il “tesoretto” della città è evaporato o quasi. Dell’attivo di 6 miliardi, contabilizzato nell’ultimo bilancio, resta poco. Sul valore di libro del pacchetto azionario nella banca, circa 5,5 miliardi, c’è una minusvalenza di oltre 4 miliardi. Anche le banche d’affari, inoltre, hanno avuto il loro bel da fare nella vicenda. Oltre al debito di 600 milioni, la fondazione ha sottoscritto contratti derivati con Mediobanca e Crédit Suisse, garantiti da un pegno su azioni Mps, con l’impegno ad aquistare titoli convertibili in azioni Mps (il prestito Fresh). Su questa voce del bilancio, che vale 569 milioni, c’è già una minus di oltre 360 milioni. Ci sono poi le perdite realizzate su altre partecipazioni bancarie cedute o in via di cessione (Intesa, Mediobanca). Ora, mentre si cerca un socio che sottoscriva il nuovo aumento di capitale della banca, la fondazione sta cercando di vendere le sue partecipazioni residue in Mediobanca, nei fondi Clessidra e Sator, nella tenuta Fontanafredda e nell’Immobiliare Sansedoni.
Ieri sera Ceccuzzi ha parlato di «introdurre tutte le discontinuità necessarie nel supremo interesse della Fondazione, del suo patrimonio e della sua partecipazione alla banca e nel legame della banca con la comunità senese». Traduzione: Siena accetta di perdere il controllo assoluto della banca e si predispone ad accogliere un nuovo socio nella banca in vista di un aumento di capitale (il secondo dopo quello di giugno, il terzo in tre anni), necessario dopo che l’Autorità bancaria europea (Eba) ha chiesto un rafforzamento patrimoniale di 3 miliardi. «È un tema che dovrà interessare il Consiglio comunale molto presto».
Quello di Ceccuzzi è solo un primo, timido passo, di cui ha informato «a Roma, le autorità competenti». Un passo che tuttavia affida la soluzione del problema a chi l’ha creato, rimandando a un tempo futuro imprecisato il momento dell’assunzione delle responsabilità. Probabilmente, si spera ancora che il pressing politico e lobbistico sull’Eba e sulla Banca d’Italia per ammorbidire i criteri di adeguatezza patrimoniali. A Siena, e non solo lì, sono in molti quelli che pensano che la colpa della disfatta sia delle regole, vecchie e nuove, e non di chi ha gestito fondazione e banca in tutti questi anni. Una disfatta, che a differenza di quella di quattro secoli fa, mette a rischio la sopravvivenza del Monte.
Twitter: @lorenzo.dilena
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