Il governo Monti si è messo in moto. Dove ci porterà non lo sappiamo ma, vista l’importanza sia delle sue azioni che delle sue omissioni, è giocoforza farci estrema attenzione. Per questo abbiamo storto abbastanza il naso sia per la scelta di alcuni ministri – su cui questo giornale ha già commentato – sia per le reazioni del più visibile fra di essi alle perplessità sollevate sulla stampa: essere “solo” un ministro è più che sufficiente perché si determini conflitto d’interesse. Contiamo fiduciosi, quindi, sull’adozione di blind trust, sulla cessazione di ogni attività professionale durante il periodo in cui si è ministri e sull’impegno a non assumerne alcuna che palesi un conflitto nei due anni seguenti il termine dell’incarico ministeriale. Così viene fatto nei paesi dove le buona maniere si praticano, e nessuno si altera; se l’esempio dato da Mario Draghi nel 2006 venisse seguito dai ministri del governo Monti avremmo fatto un passo avanti.
Da cui la prima omissione: un’adeguata regolazione del conflitto d’interessi non sembra far parte del programma a breve di questo governo, mentre dovrebbe esserlo. Anzitutto perché, se è vero come è vero che l’obiettivo numero uno deve essere quello di convincere i mercati che l’Italia cambia rotta, i fatti contano. I nostri partner economici osservano da tempo e con preoccupazione l’ampliarsi di un cancro che mina la nostra reputazione mondiale. Trattasi del generalizzato conflitto d’interessi su cui siedono svariati esponenti politici, di entrambi gli schieramenti, e di cui Silvio Berlusconi è riuscito a fare una bandiera invece d’una vergogna. Esso e la pervasiva intrusione dello stato nel sistema economico sono i canali attraverso cui la corruzione amministrativa e politica (di cui il caso Finmeccanica è l’esempio più recente e quello Milanese-Tremonti il precedente) è penetrata nel sistema, degradandolo a livelli un tempo impensabili. Mario Monti è senza dubbio cosciente del ruolo che questi fenomeni giocano nel rendere l’Italia un paese inaffidabile agli investitori internazionali e non c’è crescita in Italia senza investimenti esteri nelle tecnologie avanzate. La reputazione nazionale si ristabilisce anche, oserei dire soprattutto, così.
Il riconoscimento che la reputazione del governo costituisce, nel breve periodo, la miglior difesa sia propria che del debito nazionale, induce a una riflessione di carattere più generale. Alcuni obietteranno alla richiesta di atti concreti sul conflitto d’interessi adducendo che non implicano alcun risparmio immediato e che ciò che conta, ora come ora, sono i tagli alla spesa. Altri useranno il medesimo argomento per sostenere che avviare privatizzazioni/liberalizzazioni ha effetti minimi sul bilancio statale, almeno nell’immediato. Vero, ma solo un drastico ed immediato taglio di stipendi e pensioni pubbliche può avere effetti rapidi sulla cassa ed il programma illustrato da Monti non sembra contemplarlo. Il prossimo anno questo governo dovrà in ogni caso far prestare allo stato italiano una cifra oscillante fra i 400 ed i 450 miliardi di euro. La differenza fra un tasso medio del 4% ed uno del 7%, su una cifra del genere, sono 12-14 miliardi di euro, all’anno, per molti anni a venire. Convincere i mercati che stiamo facendo sul serio è essenziale.
Per convincerli che così è sono necessari tre ingredienti: la prova che questo è un governo diverso dai precedenti, la prova che esiste consenso sociale sul da farsi, l’adozione di misure strutturali che riducano il trend della spesa pubblica e generino crescita persistente. In che consistano queste ultime da anni lo andiamo scrivendo, e in parecchi; i discorsi programmatici confermano che Monti ne è consapevole. Mentre preferisco la retorica dell’eliminazione dei privilegi, dei monopoli e delle diseguaglianze (perché di questo si tratta) a quella dei sacrifici, la sostanza non cambia. Il fatto è, però, che queste misure toccheranno strati ampi della popolazione italiana che, in nome del “si tocchino prima i privilegi degli altri”, proveranno ad opporvisici. Non solo: da troppe parti – ben per follia, ben per ignoranza, ben per freddo calcolo elettorale – si presenta questo governo come il comitato d’affari delle grandi banche e della speculazione internazionale. A questo, al rischio dell’esplosione di conflitti sociali che potrebbero condurci ad una situazione analoga alla greca ed all’impellente necessità di provare al mondo che questo governo è differente vi è una sola maniera di far fronte: iniziando con una serie di riforme solo apparentemente simboliche ma in realtà altamente strategiche.
Mario Monti senz’altro conoscerà l’abbondante letteratura, sia teorica che empirica, sulla rilevanza strategica di burn the dollar in quei giochi ripetuti in cui una parte vuole sia convincere l’altra delle sue intenzioni sia darsi gli incentivi per rimanere fedele al proprio programma. Nel contesto attuale, “bruciare il dollaro” consiste in quattro semplici misure che il governo dovrebbe adottare subito e che, con rammarico, non ho trovato nei discorsi programmatici del Primo Ministro. Introdurre, applicandola a se stessi, una seria legislazione sul conflitto d’interessi; riavviare il processo di dismissione delle proprietà statali e di liberalizzazione di quei mercati; ridurre drasticamente i privilegi della politica e dell’apparato dello stato (di tutta la politica e di tutto lo stato, che include regioni, provincie e comuni); avvalersi, valorizzandole con criteri meritocratici, delle conoscenze e delle professionalità che abbondano nella società civile italiana e che il sistema di potere medievale su cui l’attuale casta politica si regge ha sino ad oggi marginalizzato. La scelta del nuovo presidente dell’Agcm non ci è sembrata andare in quest’ultima direzione. Auguriamoci che l’incipiente nomina di vice-ministri e sottosegretari invii finalmente quel segnale credibile di cambiamento reale senza il quale nessun “sacrificio”, per equo e necessario che sia, potrà essere fatto accettare alla società civile italiana.
*Department of Economics – Washington University in Saint Louis