Unicredit punta sull’Italia per trasformarsi in banca commerciale

Unicredit punta sull’Italia per trasformarsi in banca commerciale

«What stands for Italy?». Ovvero, cosa rappresenta l’Italia? È il titolo di un appunto su carta gialla che Roberto Nicastro, direttore generale di Unicredit, teneva sottobraccio, assieme all’iPad 2, durante la conferenza stampa di presentazione dei conti di Piazza Cordusio al 30 settembre scorso. Una domanda a cui la banca guidata da Ghizzoni dovrà rispondere in fretta, dopo la virata annunciata oggi: un deciso cambiamento di focus verso la clientela retail e corporate. «La banca universale è un modello tramontato», ha detto il top manager piacentino, osservando: «se non ci sono capitali la banca va focalizzata sul modello commerciale, che è nel nostro Dna».

Tradotto nel piano industriale, ha spiegato Nicastro, significa un aumento da qui al 2015 dei crediti a famiglie e imprese rispettivamente a quota 3 e 17 miliardi di euro da qui al 2015, «con una crescita del credito nei confronti delle Pmi del 20%». Un impegno non da poco rispetto ai numeri del terzo trimestre, che mostrano crediti alla clientela sostanzialmente fermi rispetto al 30 giugno scorso, a 562,4 miliardi di euro (561,8 miliardi al 30 giugno scorso). 

Cosa rappresenta dunque l’Italia per Unicredit? Si finanzia un porto a Trieste e non a Rio de Janeiro, per esempio. Si razionalizzano gli sportelli in “hub” e si punta sul «potenziale inespresso» della clientela, come recita la nota relativa al piano industriale: «UniCredit ha una notevole capacità non ancora sfruttata per il collocamento di obbligazioni attraverso la propria rete retail», forte di 4 milioni di clienti sull’internet banking. Italia però significa anche operazioni “di sistema”, come i 170 milioni erogati alla Premafin di Salvatore Ligresti per non diluire il controllo della compagnia assicurativa Fondiaria Sai. «Sono ancora convinto sia l’operazione da fare e mi assumo personalmente la responsabilità», ha affermato Ghizzoni, chiarendo però: «la mia ambizione non è certo rimanere azionista di Fondiaria». «Non ho preso questa decisione per motivi di potere ma per difendere gli interessi della banca». Nel novero dei 480 milioni di svalutazioni in «investimenti strategici», infatti, ci sono sia i 440 milioni relativi a Mediobanca che i 40, appunto, riferiti a FonSai, ma la perdita va ben oltre la cifra scritta sul bilancio. Intanto, Ghizzoni ha alzato il velo sul totale dei tagli al personale da fine 2010 al 2015: 7.400 dipendenti, Italia compresa, a cui faranno da contraltare 1.000 assunzioni in Centro-Est Europa. Un piano che non dovrebbe incontrare l’opposizione dei sindacati, in quanto le uscite saranno effettuate «attraverso il turnover e i prepensionamenti». 

«Mi auguro una fase politica stabile» ha poi detto Ghizzoni augurando buon lavoro a Mario Monti, osservando: «È imperativo e indispensabile ridurre gli spread», perché, questo il pensiero del numero uno di Piazza Cordusio, non è pensabile che i costi di rifinanziamento siano così elevati per l’Italia. Una questione di non poco conto, anche alla luce dell’esposizione di 40,059 miliardi di euro sui titoli di debito italiano segnata da Unicredit al 30 settembre.
Se l’avvicinamento alla clientela e «al territorio» rimane un caposaldo del nuovo corso targato Unicredit, per fare concorrenza diretta a Banca Intesa, da sempre focalizzata sul mercato interno italiano, sul fronte libico i dubbi permangono. Tra banca centrale e fondo sovrano Tripoli possiede oltre il 7% del capitale della banca. Quote che rimangono tuttora congelate e sulle quali si alzerà il velo tra un paio di mesi, ha spiegato Ghizzoni. Per ora, dunque, la partecipazione dei libici all’aumento di capitale, deliberato all’unanimità, non è prevista. Nessun contatto nemmeno con i fondi sovrani qatarini e cinesi, su questi ultimi l’a.d. si è limitato a negare qualsiasi contatto con nuovi soci potenziali. Nessun problema, infine, in Est e Centro Europa, dove la banca continua a crescere. Cosa rappresentano Turchia e Polonia per Unicredit?