2010-2012: a Rosarno la paga è sempre 5 euro

2010-2012: a Rosarno la paga è sempre 5 euro

COSENZA – Era il 7 gennaio 2010 quando Rosarno venne messa a ferro e a fuoco. Centinaia di migranti africani avevano divelto cassonetti e danneggiato abitazioni, nel tentativo di risvegliare la coscienza collettiva. Quella che era mancata ad un gruppo di sconosciuti, che si era divertito a sparare dei colpi con un’arma ad aria compressa contro due di quegli anonimi raccoglitori di arance, venuti dall’Africa colmi di speranze puntualmente deluse dagli sfruttatori italiani.

Quel giorno di gennaio l’Italia ha scoperto il ricatto della ‘ndrangheta agli schiavi del XXI secolo: 25 euro al giorno (dei quali 5 trattenuti come tassa di trasporto) per raccogliere arance fino allo sfinimento. Quello stesso giorno l’Italia ha scoperto i capannoni senza acqua e luce in spaventose condizioni igienico-sanitarie, assieme a quel razzismo misto a violenza che mantiene l’ordine delle cose e fa rispettare le gerarchie del vero potere, lo stesso che culmina nella caccia al migrante durante quello sciagurato pomeriggio del gennaio 2010.

Questo e molto altro è riportato nel dossier di Radici-Rosarno, un’insieme di associazioni che rivendicano diritti per i migranti. Molti sono arrivati prima degli accordi del 2009 tra Italia e Libia, che hanno chiuso loro la via del deserto e quella per l’Italia. Come spiega il rapporto, «Rosarno è solo una delle tappe dei migranti che alle stesse condizioni di vita e di lavoro si spostano in Campania e in Sicilia, ma anche in Puglia».

Seppur irregolari spesso non possono essere espulsi dall’Italia perché provengono da paesi considerati a rischio e così chiedono al nostro paese asilo politico e protezione. Secondo i dati dell’Unhcr (agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati) in Italia dal luglio 2001 al dicembre 2009 sono stati accolti oltre 26 mila tra richiedenti asilo e rifugiati. Molto meno che in altre nazioni europee come la Germania che ne ha accolti circa 600 mila, la Francia che ne ha ospitati 240 mila e il Regno Unito fermo a 200 mila.

Alcuni più fortunati, attraverso i progetti Sprar di cui ha parlato Linkiesta, vengono accolti in comunità che fanno richiesta per accoglierli al Ministero dell’Interno e ottengono fondi per ospitarli, trovargli un lavoro, favorirne l’integrazione nel tessuto sociale preesistente. Altri meno fortunati, ogni autunno finiscono a raccogliere le arance che poi arrivano sulle tavole di tutti gli italiani, in condizioni di vera e propria schiavitù.

Secondo il rapporto Caritas-Migrantes 2011 in Italia ci sono ormai circa 5 milioni di stranieri in regola, con un’età media di 32 anni e solo nell’ultimo anno il numero è aumentato di circa 340 mila unità. E anche quest’anno in Calabria sono arrivati in centinaia, per lavorare fino a 12 ore al giorno, ricattati con quei documenti che non hanno e che dopo un controllo, potrebbero costargli la pena massima: l’espulsione, quindi la perdita del lavoro. Nonostante tutto anche quest’anno con l’inizio della nuova stagione di raccolta degli agrumi, il problema si è ripresentato e in molti hanno ripopolato le terre della Calabria.

In seguito alla rivolta del 7 gennaio dell’anno scorso i migranti erano stati portati via da Rosarno forzosamente dal Ministero dell’Interno, eppure secondo i dati contenuti nel dossier di Radici-Rosarno, in molti hanno continuato a vivere li nascosti dietro una collina della città. Qualcuno degli immigrati racconta che «il clima si è fatto invivibile, ogni anno alla fine della stagione tentano di cacciarci perché non serviamo più; calci, sputi e infine gli spari», proprio come successe quel pomeriggio di quasi due anni fa.

Grazie alla cooperazione tra Ministero degli Interni, reti di associazioni e lavoratori stessi, subito dopo l’episodio della rivolta in 200 hanno ottenuto i documenti, vedendosi restituire la dignità del proprio nome. Il vero problema sottolineato nella pagine del dossier è però che «quello del Sud Italia è un modello agricolo basato sullo sfruttamento, un sistema», il quale finisce per creare tensione sociale e seminare insoddisfazione e rabbia nei migranti.

Due anni fa a Rosarno (Afp)

Tra le storie raccontate nel dossier c’è quella di Daouda, 28enne della Costa d’Avorio arrivato in Italia dopo una fortunata traversata del Mediterraneo che non ha lasciato morti alle sue spalle, come invece accade spesso. A Daouda hanno ucciso il fratello con un colpo di arma da fuoco perché il suo paese è in guerra e perciò è dovuto scappare per continuare a vivere. Dopo essere stato accolto in un centro vicino a Frosinone, Daouda arriva a Rizziconi vicino a Rosarno, dove si procura una tenda da campeggio che diventa la sua abitazione. Le giornate di lavoro si susseguono fino al 7 gennaio, quando Daouda diviene uno dei capi della rivolta contro i soprusi e i silenzi della gente per cui lavora e produce ricchezza.

Nelle condizioni di Daouda nella sola Calabria si trovano ben 7 mila lavoratori irregolari, dei quali la metà circa (49%) impiegati in nero. Nel solo 2010 tra le circa 8 mila ispezioni effettuate dal Ministero del Lavoro nelle aziende agricole di Calabria, Campania e Puglia, il 44% delle strutture sono risultate irregolari. E ancora secondo i dati Istat sulle condizioni dell’agricoltura in Italia aggiornati al 2009 e presentati nel corso di un’audizione alla Camera dei Deputati dell’ Aprile 2010, rispetto ad una media nazionale del 25% di irregolarità nel settore agricolo, il Sud con Campania e Calabria in testa spicca con un 33% di atipicità.

Dopo i fatti di quel triste e famoso pomeriggio, a Rosarno e dintorni risultano stabilmente domiciliati un decimo dei 2500 migranti impegnati fino al dicembre 2009 nella raccolta di olive e arance. Tuttavia si stimano in circa mille i lavoratori stagionali nella sola Piana di Sibari della stessa cittadina. Grazie ai provvedimenti presi dalle autorità, a partire dalla scorsa stagione di raccolta non risultano essersi ricreate le bidonville o ghetti che accoglievano le decine di lavoratori emarginati. Questi si sono dispersi in una miriade di località e abitazioni diverse che ne accolgono 5-10 alla volta, suddivisi per etnia e lingua d’origine (comunità anglofona e comunità francese le più popolari).

In ogni caso il 55% delle abitazioni censite dalla ReteRadici risulta in condizioni accettabili, mentre nelle altre situazioni analizzate mancano l’acqua oppure la luce o i servizi igienico-sanitari. In definitiva l’aumento di controlli e il rischio di denunce hanno fatto innalzare il livello complessivo dell’accoglienza. In ogni caso se all’inizio degli anni Novanta l’agricoltura impegnava quasi il 20% della forza lavoro calabrese, oggi devono arrivare braccianti agricoli dalla Guinea e dal Mali pronti a farsi sfruttare pur di lavorare nelle terre calabresi. Il lavoro da fare è rimasto sempre lo stesso, ma certamente oggi sono altri a volerlo fare, possibilmente a condizioni migliori rispetto al passato recente degli ultimi anni.  

Per approfondire:

Il dossier Radici/Rosarno

Leggi anche:

A Sibari gli stranieri lavorano nei campi, gli italiani incassano

Nella Piana di Sibari si venera la Madonna nera. La chiamavano “dea degli schiavi”. Alle sue spalle dodicimila stranieri raccolgono per pochi euro al giorno le arance che finiranno sulle nostre tavole. Pagano affitti da 150 euro a posto letto e sono stati vittime di ronde e aggressioni razziste. Gli italiani figurano nelle tabelle dell’Inps e ricevono le indennità senza andare nei campi. Tra lo stabilimento di Rino Gattuso e la statale delle prostitute, il paradosso della povertà in mezzo all’abbondanza.

In Meridione un’agroindustria da Terzo Mondo

Filiere lunghe e sfruttamento degli immigrati sono ancora troppo spesso la base dei prodotti di eccellenza meridionali. Il caporalato riguarda oltre 400 mila lavoratori stranieri, ma anche altri 600 mila che vivono in condizioni di assoluto degrado, in alloggi di fortuna, in mezzo alla terra. In Sicilia, ad esempio, è un fenomeno gestito da donne. Che sono anche quelle che poi ne pagano il prezzo. Ad esempio coi “festini agricoli”, organizzati dai produttori che pagano 10 euro la prestazione delle ragazze straniere che di giorno lavorano nelle campagne.

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