2011, dalle banche ai Ligresti: requiem per la finanza italiana

2011, dalle banche ai Ligresti: requiem per la finanza italiana

Finisce mestamente il 2011 della finanza italiana. Finisce con una lunga lista di necrologi del potere finanziario. Ma a ben guardare a finire male è la stessa idea della finanza italiana, con le sue furbizie, i suoi accrocchi ammuffiti, le sue collusioni. È stato un anno breve ma intenso, che ha cancellato alcuni totem del sistema di potere, e ne ha ridisegnato le mappe.

Il 2011della finanza italiana comincia simbolicamente ad aprile, sotto quaresima, con la defenestrazione di Cesare Geronzi dalla presidenza delle Generali, e si chiude, poco prima di Natale, con tre eventi non direttamente connessi fra loro, ma che confermano tutti e tre il senso di fallimento di un sistema. Il mega-rifinanziamento triennale da 116 miliardi che le banche italiane, ormai impossibilitate a finanziarsi sui mercati, hanno ottenuto dalla Bce; il tracollo di Fon-Sai sotto la gestione decennale della famiglia Ligresti; il divorzio italo-francese su Edison, che mette la parola fine alla prima delle operazioni di sistema concepite dal sistema bancario italiano negli ultimi dieci anni, e ne inaugura un’altra, tutta italiana, i cui esiti sono quanto mai incerti.

Senza per questo ridimensionare le cause macroeconomiche della ricaduta nella crisi, va detto che il rifinanziamento alla Bce conferma definitivamente che le grandi banche italiane da sole non stanno in piedi, nonostante i ripetuti proclami sulla solidità del sistema. Che infatti, dopo un triennio di indugi, è stato costretto a ricapitalizzare dall’Autorità bancaria europea per 15 miliardi (cui vanno sommati i 5 miliardi di Intesa Sanpaolo e 800 milioni della Bpm). Unicredit, una grande banca multinazionale ormai zoppiccante, si appresta così a chiedere 7,5 miliardi al mercato, altre seguiranno.

Colpa dei Btp emessi dal Tesoro italiano, che hanno perso valore e hanno affossato i bilanci delle banche, come si va dicendo? Ma a decidere di riempirsi di Btp sono stati gli stessi banchieri italici, senza che dalla Banca d’Italia guidata da Mario Draghi (da novembre alla presidenza della Bce) arrivassero richiami alla prudenza. Un caso per tutti: Banca Mps aveva 2 miliardi di titoli pubblici italiani in portafoglio a fine 2008 e 26 miliardi e mezzo a giugno 2011. Per tutti, faceva comodo comprare Btp perché si indebitavano con i tassi sotto il 2% e poi investivano al doppio (carry trade). La corsa ai Btp faceva parte di più ampia partita di scambio fra il ministro dell’Economia Giulio Tremonti e le banche. Della quale la norma per l’affrancamento fiscale dell’avviamento, dei marchi e delle attività immateriali in bilancio è la perla più pregiata: svariati miliardi di euro di agevolazioni fiscali spalmati su dieci anni.

Sulle furbizia “patriottica” è però calata come una mannaia la sentenza dei mercati. Come pure sulla resistenza a varare aumenti di capitale, che chiama in causa le fondazioni di origine bancaria. Gli enti creati dalle riforme Amato-Ciampi dei primi anni ’90 arrivano infatti alla fine dell’anno nelle peggiori condizioni: da un lato, il crollo delle quotazioni delle banche ha causato minusvalenze complessive al momento stimabili in non meno di 10 miliardi; dall’altro, non hanno più capitali liberi da investire nelle ricapitalizzazioni bancarie: la conseguenza è che perderanno il loro storico controllo sugli istituti di credito, mantenuto negli anni a dispetto della legge. Per la dottrina delle fondazioni come azionisti stabili delle banche, insomma, il 2011 è una sconfitta ingloriosa. 

L’anno, del resto, era cominciato con il peggiore dei presagi per gli equilibri consolidati del sistema finanziario: l’inaspettato “dimissionamento” di Geronzi dalla presidenza delle Assicurazioni Generali. Il 6 aprile, durante una riunione informale, prima del cda della compagnia, uno fra i due massimi banchieri-simbolo del capitalismo di relazione italiano (l’altro è Giovanni Bazoli di Intesa Sanpaolo) è stato costretto a rassegnare le dimissioni, dopo che 10 consiglieri su 17 gli avevano manifestato l’intenzione di sfiduciarlo apertamente. Negli stessi giorni, invece, andava a segno l’unica grande operazione di mercato che si sia vista quest’anno a Piazza Affari. Un’Opa ostile sulla Parmalat, lanciata dal gruppo francese Lactalis, che metteva fine al maldestro tentativo di Corrado Passera, all’epoca amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, di creare una cordata di investitori italiani per rilevare il controllo della società di Collecchio. Il progetto di Passera era di fondere Parmalat con Granarolo, cliente indebitato della stessa Intesa, sul modello dell’operazione Cai-Alitalia-Airone.

Pochi mesi dopo, però, a Passera riesce un colpo magistrale per il suo futuro: la doppia nomina a ministro delle Sviluppo e a ministro delle Infrastrutture nel governo Monti. Da banchiere di sistema a ministro-tecnico, con non poche chances di ritrovarsi alla testa di una coalizione alla prossima tornata elettorale. Da ministro gli è riuscito quello che non gli era stato possibile da banchiere: convincere soci italiani e francesi di Edison ad accettare un accordo di separazione, pensato la scorsa estate nei corridoi di Intesa Sanpaolo, e noto come “lodo Zuccoli”. Ovvero Edison al colosso statale francese Edf, e la controllata Edipower a Delmi, la holding dei soci italiani cui partecipano le ex municipalizzate A2a e Iren.

A Intesa Sanpaolo, chiamato da Bazoli, è arrivato un manager delle assicurazioni: Enrico Cucchiani, formazione in McKinsey, una carriera nel gruppo Allianz. Scelta che assicura alla banca un canale preferenziale con il mondo della finanza tedesca, dove Cucchiani è conosciuto e stimato, ma anche un nome che ha spiazzato molti osservatori. Il nuovo a.d. di Intesa Sanpaolo è sempre stato estraneo dalla galassia di potere che ruota attorno professore bresciano. Fra i cambi di management, va anche ricordata l’uscita da Finmeccanica (la holding della difesa controllata dal Tesoro) dell’a.d. Pierfrancesco Guarguaglini, in conseguenza dell’inchiesta della Procura di Roma che ha fatto emergere un sistema di appalti pilotati e fondi neri.

Sullo sfondo, alcuni poteri restano, quanto intatti lo si capirà nel 2012. Il primo è quello di Bazoli, che anche nelle ultime vicende relative a Intesa Sanpaolo, ha confermato il suo asse con  Giuseppe Guzzetti, presidente della Fondazione Cariplo, e la sua influenza sulle altre fondazioni azioniste della banca. Un altro è quello di Fabrizio Palenzona, vicepresidente di Unicredit, la cui influenza passa per Fondazione Crt (socia della banca di Piazza Cordusio), Conftrasporto (trasportatori e logistica), Aiscat (società autostradali) e Mediobanca, del cui management è storico alleato e supporter.

Negli ultimi tempi, Palenzona si è apparentemente eclissato, pur giocando un ruolo centrale su diverse partite, a partire dalla vicenda Ligresti-Fondiaria. In primavera, infatti, ha spinto per la partecipazione di Unicredit all’aumento di capitale di Fon-Sai varato a giugno. Un intervento che alla banca è costato 170 milioni (di cui 150 già persi) e che si è rivelato del tutto inefficace per mettere a posto i conti della compagnia, ma utilissimo per entrare nella sala di comando della compagnia assicurativa, dove a giugno è stato insediato con il rango di direttore generale Piergiorgio Peluso, banchiere Unicredit in ottimi rapporti con i vertici di Mediobanca. Da allora sui bilanci di Fondiaria-Sai sono state fatte emergere svalutazioni per 1,3 miliardi e la necessità di un ulteriore rafforzamento patrimoniale per 600-750 milioni, che sarà eseguito nei primi mesi del nuovo anno.

L’anno si chiude, perciò, con un altro fallimento del capitalismo di relazione, in cui ben due banche si trovano fortemente invischiate verso i loro soci-clienti-amministratori Ligresti. Unicredit è infatti esposta per circa 400 milioni verso le holding della famiglia Ligresti (Sinergia e Premafin), mentre Mediobanca è il maggior singolo creditore, avendo erogato prestiti subordinati per 1 miliardo a Fon-Sai. Nel complesso, il sistema bancario ha finanziato la galassia Ligresti per oltre 2 miliardi. Un finale triste per la finanza italiana, dunque, sepolta sotto le macerie della proprie furbizie a fil di legge, dei suoi storici accrocchi ormai in decomposizione e delle sue inestirpabili collusioni a danno degli azionisti di minoranza, della concorrenza, della trasparenza.  

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Twitter: @lorenzodilena

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