Sono tempi di tagli e di austerity anche per l’Unesco, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura. Nel grande palazzo dell’Unesco, affacciato su Place de Fontenoy, a Parigi, si stanno congelando progetti e iniziative. Molti collaboratori dell’organizzazione non sanno se avranno ancora un posto di lavoro nel 2012. Si naviga a vista, con grande incertezza.
Sui conti in rosso pesa la decisione, da parte degli Stati Uniti, di ritirare il finanziamento annuale garantito all’Unesco. La mossa americana è stata causata, a fine ottobre, dall’ammissione della Palestina fra gli stati membri dell’organizzazione. Negli Stati Uniti è in vigore dal 1990 una legge federale (riconfermata nel 1994) in base alla quale il governo può tagliare i fondi alle organizzazioni delle Nazioni Unite che accettano la Palestina fra i loro membri. Secondo gli esperti del Dipartimento di Stato, la legge non ammette deroghe. Il processo è praticamente automatico. La Palestina conquista il suo posto al sole e da Washington chiudono i rubinetti.
Per l’Unesco si tratta di rinunciare a un bel bel mucchio di soldi: 70 milioni di dollari, cioè il 22 per cento del budget complessivo. La mazzata è pesante, anche perché i finanziamenti di solito arrivano a fine anno e questo 2011 perciò si chiuderà senza il generoso assegno da Washington. Il Canada, invece, ha deciso di mantenere il suo finanziamento (10 milioni di dollari) però non sosterrà eventuali progetti straordinari.
Intanto il deficit dell’Unesco ha toccato i 65 milioni di dollari. Chiudendo pochi giorni fa la Conferenza generale, il direttore generale Irina Bokova, bulgara, ha annunciato “misure radicali”. «Ho sospeso l’insieme dei nostri impegni e l’esecuzione dei nostri programmi fino alla fine dell’anno», ha detto la Bokova. Molte attività sono state cancellate o rimandate e l’austerity tocca tutti i settori. Tuttavia la Bokova ha mantenuto invariato il programma biennale 2012-2013, appena approvato, che comprende anche il contributo degli Stati Uniti.
Evidentemente la Bokova spera che i soldi americani torneranno nei prossimi mesi, ma la cosa non è assolutamente scontata. Intanto il deficit potrebbe toccare nei prossimi due anni la somma di 143 milioni di dollari. Il ritiro dei finanziamenti americani ha determinato un forte attivismo di altri Paesi membri dell’Unesco. Fra questi il Brasile. Il 5 novembre il presidente brasiliano Dilma Roussef ha incontrato la Bokova a Parigi e ha promesso che «il Brasile continuerà a fare la sua parte», non mancando di aggiungere la sua soddisfazione per l’ammissione della Palestina. È chiaro che nel grande palazzo di Place de Fontenoy si gioca anche una partita geopolitica. Il Brasile è il capofila fra i paesi Brics (Brasile, India, Cina, Russia, Sudafrica), potenze emergenti che vogliono aumentare il loro peso e la loro influenza a spese degli Stati Uniti e dell’Europa. Il tempismo con il quale la Roussef si è presentata a Parigi forse non è del tutto casuale.
Curiosamente si è fatto avanti, a sostegno dell’Unesco, anche Ali Bongo, il presidente del Gabon. Bongo ha proposto un contributo straordinario di 2 milioni di dollari per compensare in parte il mancato arrivo dei dollari americani. Ma l’annuncio di Bongo, che all’Unesco ha avuto l’effetto della ennesima fanfaronata di un satrapo africano, ha scatenato polemiche soprattutto nel suo Paese. La maggiore organizzazione della società civile del Gabon (ça suffit comme ça) ha scritto una lettera aperta alla Bokova nella quale le chiede di rinunciare all’offerta di Bongo. «In tempi normali – si legge nella lettera – un tale contributo non rappresenterebbe alcun problema. Ma se guardiamo all’impoverimento galoppante del nostro Paese, il popolo del Gabon, spinto dall’istinto di sopravvivenza, lancia un appello perché sia rifiutata l’offerta del nostro governo».
L’Italia, invece, che si astenne al momento del voto sulla Palestina, mantiene i suoi impegni. Con poco più di 16 milioni di dollari l’anno, il nostro Paese è il sesto contributore ordinario dell’Unesco. Ma l’Italia contribuisce anche con somme cospicue extrabudget (35 milioni di dollari l’anno). Buona parte di questi fondi extra servono per finanziare istituzioni dell’Unesco presenti in Italia. Come ad esempio il Centro Internazionale per la Fisica Teorica di Trieste, il Programma Mondiale per la valutazione delle risorse idriche a Perugia, l’Ufficio regionale per la Scienza e la Cultura a Venezia.
Tuttavia il sostegno italiano all’Unesco non è esente da critiche alla gestione dell’organizzazione. Nel suo intervento del 28 settembre scorso, in occasione, della 187a sessione del Consiglio esecutivo, l’ambasciatore italiano Maurizio Enrico Serra (autore di una biografia di Malaparte pubblicata in francese che gli è valsa il Premio Goncourt), ha lamentato «uno squilibrio persistente in favore di costi amministrativi a discapito delle attività programmatiche». Oltre il 60 per cento del budget totale dell’Unesco copre le spese per il personale e sono previsti ulteriori aumenti. «Comprendiamo l’esigenza di reperire e trattenere all’Unesco personale all’altezza delle competenze e delle responsabilità», ha concesso Serra, ma ha aggiunto che serve «un aumento della trasparenza relativa alla gestione del personale e del processo di reclutamento». Un modo elegante e diplomatico per dire che, di questo passo, l’Unesco rischia di diventare un carrozzone mangiasoldi.