“Altro che minestrina, la nostra vecchiaia sarà di lavoro”

“Altro che minestrina, la nostra vecchiaia sarà di lavoro”

Centenario per definizione, Babbo Natale è l’unico anziano (oltre a Giorgio Napolitano) che ancora non subisce l’usura del tempo, viaggiando sin troppo allegramente sull’onda di un ricatto a lui estremamente favorevole che lo porta a essere idolo autentico e incontrastato di tutti i bambini. Tuttavia, consiglieremmo anche al nostro protagonista di interrogarsi su come gli adulti di età molto più giovane considerino quella categoria di persone che, per convenzione, definiamo, senza troppi giri di parole, «i vecchi».

E’ una piccola riflessione che proprio in questi giorni (amari) di festa mi è stata sollecitata da una conversazione del Corriere della Sera con un monumento del teatro, uno dei pochissimi rimasti insieme a Giorgio Albertazzi e cioè Gianrico Tedeschi, il quale, all’intervistatore che gli chiedeva quali pregi e quali difetti contenesse quell’età ormai vetusta (l’attore ha toccato i 91 anni) risponde così: «Il vantaggio è quello di poter dire tutto ciò che mi passa per la testa. Lo svantaggio è che tutti mi parlano alla prima persona plurale: Come stiamo oggi? Abbiamo fatto una bella passeggiata? Abbiamo mangiato la minestrina?».

Meraviglioso Tedeschi. Con leggerezza impalpabile e il dono dell’ironia, disegna un’idea di rincoglionito che è evidentemente frutto dell’immaginario collettivo, al quale viene cinicamente consegnato il compito di escludere le persone anziane dal consesso sociale come fossero scarti del tempo. La prima persona plurale («abbiamo mangiato la minestrina?») è davvero quel modo sottile, perfido, fintamente altruista di interessarsi ai fatti di un vecchio e quando il medesimo in realtà è lucido – e lo è nella maggioranza dei casi – come altro potrà giudicarci se non come anime perse che non hanno compreso il senso alto della vita?

In questo tempo economicamente tormentato abbiamo forse un’occasione storica per riguadagnare qualche punto, non tanto nella considerazione dei nostri anziani (sapeste cosa dicono loro di noi!), quanto nell’espressione futura di quella che, sempre per convenzione, viene chiamata terza età. Stiamo ovviamente parlando della nostra pensione, il meritato approdo dopo una vita di lavoro: è arrivato un governo di professori, di analisti da laboratorio, e ce l’ha spostata molto più in là. M’immedesimo nella classe ’52, la più sfigata della compagnia, che ce l’aveva a un passo e che d’un colpo se l’è vista sfilare – ahi che dolor – di qualche anno.

Sessantacinque, settant’anni diventeranno età molto più «normali» in cui avere confidenza con il mondo produttivo, avvicinando la maggioranza degli italiani a un rapporto nuovo e rivoluzionario con la società, e cioè al pensiero che la vecchiaia non sarà più quel lungo viaggio in un altrove indistinto e senza contorni, quella separazione traumatica tra il sentirsi vivo e il morire un po’, ma piuttosto un passaggio consapevole in cui la carovana dell’anima potrà battere sentieri ancora inesplorati. E in cui rimandare generosamente al mittente, con somma libidine, quella perfida prima persona plurale: «Abbiamo mangiato la minestrina?». Mangiatela tu, la minestrina.

Michele Fusco

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