Ingenui noi a pensare che le misure addottate la settimana scorsa – un po’ tristi ed alquanto insufficienti anche con rispetto al limitato obiettivo di pareggiare il bilancio dello stato nel 2013 – potessero essere classificate come un nostrano ce-n’est qu’un début a cui avrebbe fatto seguito il classico continuons le-combat. Sembra che questo governo non abbia intenzione di aggiungere molto altro a quel poco che questi provvedimenti fanno per mettere sotto controllo la spesa pubblica. Così interpretiamo, sperando di sbagliarci, le dichiarazione del ministro per lo Sviluppo Economico, Corrado Passera che la stampa ha riportato nel fine settimana.
Non vi saranno altre manovre perché «è stata messa in sicurezza l’Italia ed evitato il rischio-Grecia, che era ad un passo». Fingiamo d’ignorare la terminologia adottata – ricordate l’ultima volta che i conti pubblici del nostro paese erano stati “messi in sicurezza”? – e chiediamoci: davvero è ragionevole anche solo sperare che un’operazione una tantum possa aver davvero messo in sicurezza dei conti pubblici che sono strutturalmente sbilanciati? Non si tratta solo del fatto che quasi sicuramente l’economia entrerà presto in una nuova recessione (nessuno si chiede più se avverrà ma, piuttosto, di quanto il Pil si ridurrà nel 2012 e forse anche dopo) ma della questione molto più drammatica di cosa ci aspetta nei prossimi cinque anni o giù di lì. Perché questo è l’orizzonte temporale che una politica economica minimamente responsabile dovrebbe adottare, non certo quello del fabbisogno di cassa durante i prossimi 12 mesi. Come andiamo ripetendo da anni se il debito italiano viene considerato a rischio dai mercati finanziari nazionali ed internazionali non è – almeno: non è solo – per il fabbisogno di cassa del prossimo anno ma perché appena un qualsiasi analista prova a guardare ad un orizzonte temporale minimamente più lungo del proprio naso nota due cose.
Una spesa pubblica seduta tranquillamente su di un trend crescente ed un prodotto interno lordo, quindi un gettito fiscale, costante nella migliore delle ipotesi o in leggera decrescita in quelle più realistiche. Ed è a quel punto che l’analista, per ottimista che voglia cercar di essere, si allarma e vende: perché vede in arrivo altri, vasti, deficit futuri e non trova, nelle misure adottate, alcuna correzione dei medesimi. Ecco allora che, una volta ancora e quasi ossessivamente, occorre ritornare al solito ritornello che avevamo sperato questo governo non avesse bisogno di sentirsi ripetutamente solfeggiare: per uscire dal buco nero occorre assolutamente abbassare il trend di crescita di medio e lungo periodo della spesa pubblica ed alzare il trend piatto o decrescente del prodotto interno lordo. O si fanno entrambe queste cose o saremo costretti a vivere nell’emergenza quotidiana, nell’annuale dose di lacrime e sangue fatta di tagli all’ultimo momento e tragedie sociali ad essi associate.
Un editoriale deve procedere con argomenti apodittici e semplificati. Bene, eccoli: occorre cambiare il trend di spesa per pensioni, sanità, enti locali ed apparato centrale dello stato nel lungo periodo ed occorre liberalizzare settori chiave del sistema economico perché questo ricominci ad essere in grado di generare crescita duratura e sostenuta. I settori chiave non sono solo le professioni – la liberalizzazione delle quali viene incredibilmente bloccata sul nascere dalle lobby delle medesime o persino da quelle dei taxisti – ma altri: quello bancario, anzitutto, quello dei trasporti, quello delle comunicazioni, quello dell’educazione. Liberalizzare, maledetta parola, non vuol dire “dare tutto in mano ai privati perché facciano ciò che vogliono” ma, invece, creare le condizioni strutturali perché vi sia concorrenza fra imprese, libera entrata delle stesse sui mercati e, quindi, efficienza economica ed innovazione. Concorrenzializzare bisogna, e perdonate l’orrendo neologismo. Tanto per essere concreti, prendiamo il caso del sistema bancario. Se vi sarà, come vi sarà, recessione in Italia l’anno prossimo non è tanto o solo per la piccola riduzione della domanda che la manovra produrrà ma, soprattutto, perché da svariati mesi l’economia italiana si trova nel mezzo di un credit crunch. Da dove viene? Viene dalla mancanza di concorrenza del settore bancario che, interagendo con la crisi del debito pubblico, riduce e rende più costoso il credito a disposizione delle imprese. Come funziona questo meccanismo?
Funziona così: il sistema bancario nazionale è controllato quasi totalmente da banche italiane le quali, non solo hanno pochissimo capitale, ma tengono in portafoglio una quantità abnorme di debito pubblico italiano. Siccome quest’ultimo ha perso drammaticamente valore da due anni a questa parte il valore di mercato di tale portafoglio si è ridotto. Questo rende le banche italiane sottocapitalizzate (e le lobby bancarie nazionali si oppongono alla ricapitalizzazione richiesta dalla European banking authority) facendo per loro più difficile finanziarsi sui mercati internazionali (nessuno ti presta liquidità a buon mercato se, in garanzia, puoi dare solo titoli che stanno perdendo valore). Di conseguenza le banche italiane non sono in grado di finanziare adeguatamente le imprese italiane. Se, tanto per dire, metà del mercato bancario italiano fosse servito invece da banche straniere (americane o inglesi, tedesche o giapponesi o financo spagnole) ecco che – siccome detengono nei loro portafogli anche titoli di debito pubblico che non stanno perdendo valore – queste potrebbero offrire alle imprese italiane il credito di cui hanno bisogno. Detto altrimenti, facilitando l’accesso di banche straniere al mercato italiano non solo creeremmo la concorrenza operativa che forzerebbe le nostre a diventare più efficienti ed a differenziare il loro portafoglio titoli per emulare i concorrenti; assicureremo anche le imprese italiane dal rischio di (mancato) credito che la crisi del debito pubblico nazionale può causare interagendo con la situazione di monopolio del mercato bancario.
È attraverso canali come questo che la mancanza di concorrenza rendeun paese incapace di crescere. Quanto vale per il sistema bancario vale per il sistema dei trasporti – ferroviari ed aerei, altro che taxi! – per quello educativo o per quello dell’informazione: senza muovere, educare ed informare appropriatamente la gente, l’economia di un paese non cresce. Ma di queste “concorrenzializzazioni strategiche” un governo di tecnici non deve apparentemente occuparsi. Chissà perché…
*Department of Economics – Washington University in Saint Louis