Loro non potevano sapere. E, appena hanno saputo, hanno cercato di correre ai ripari. È questa la linea difensiva adottata dagli avvocati di otto ex alti ufficiali della Marina Militare nel processo di primo grado per omicidio colposo, lesioni e mancata adozione di cautele sul posto di lavoro che si è appena chiuso alla procura di Padova, nel silenzio più generale.
Due i militari morti, entrambi per una malattia polmonare che non lascia dubbi: il capitano di vascello Giuseppe Calabrò, di Siracusa, e il meccanico Giovanni Baglivo, di Tricase (Lecce), hanno lavorato a contatto con l’amianto. Ma è solo la punta dell’iceberg. L’inchiesta è nata nel 2005 e in questi sei anni negli uffici della procura sono state radunate seicento cartelle cliniche di altrettanti marinai ammalati, di cui almeno 300 deceduti per mesotelioma pleurico e malattie amianto correlate. Una strage silenziosa, fatta di uomini in divisa bianca che hanno lavorato, giorno e notte, su navi imbottite di asbesto: ne erano rivestiti tubi e manicotti di collegamento, piastre delle cucine, raccordi, coperture metalliche, condutture. Nel 1992 ufficialmente l’amianto diventa fuorilegge, ma dalle carte del processo emerge che almeno fino al 2005 su navi in manutenzione è stato bonificato l’amianto.
In questi giorni, con le arringhe degli avvocati della difesa, il processo si è concluso. Pochissimi i cronisti in aula, e solo dei giornali locali, per un processo che di fatto ha già portato ai risarcimenti civili alle famiglie dei deceduti, ma il dibattimento ha visto la costituzione di parte civile di Medicina democratica e dell’associazione esposti all’amianto.
L’inchiesta è stata possibile solo grazie alla dedizione a tempo pieno dell’ispettore Omero Negrisolo, un uomo di poche parole ma molto caparbio. Ogni volta che aggiunge un nome alla sua lunga lista di vittime, prova una sofferenza personale, conosce tutte le storie dei marinai, e delle loro – a volte ancora giovani – vedove.
Al banco degli imputati ci sono gli ex capi di Stato maggiore della Forza armata, Mario Bini e Filippo Ruggiero, gli allora direttori generali di Navalcostarmi Lamberto Caporali e Francesco Chianura, quelli della Sanità Militare Elvio Melorio, Agostino Didonna e Guido Cucciniello e l’ex comandante in capo della squadra navale Mario Porta. Erano loro i responsabili in capo mentre sulle navi l’amianto abbondava, si sgretolava sotto l’urto delle continue oscillazioni in mare, veniva respirato giorno e notte non soltanto dai macchinisti, ma anche da chi lavorava in coperta.
La storia di questo processo non è stata sempre lineare: con la scorsa finanziaria c’è stato il tentativo di boicottarlo grazie a un emendamento che interpretava autenticamente una legge del 1955, e che, equiparando le navi militari alle navi civili, “salvava” dalla responsabilità i Capi di Stato Maggiore e l’attribuiva solo all’effettivo comandante del vascello. Il pericolo è stato scongiurato dopo alcune interrogazioni parlamentari e un emendamento successivo che ha messo a posto la situazione.
La sentenza è attesa per il 22 marzo e intanto sta concludendo la fase istruttoria anche il processo “amianto in Marina bis”, sempre a Padova, che raccoglie centinaia di casi, mentre anche Raffaele Guariniello, il superprocuratore torinese, ha aperto un fascicolo su decine di uomini in divisa deceduti per l’amianto.
In questi stessi giorni a Taranto si indaga per le morti per mesotelioma del personale dell’arsenale e proprio la settimana scorsa la Corte d’appello di Brescia ha riconosciuto la malattia professionale per mesotelioma pleurico che causò la morte nel 2007 di un operaio tarantino, poi trasferitosi a Mantova. Luciano Carleo, presidente di “Contramianto”, ha commentato: «La decisione afferma la correlazione tra patologia tumorale da esposizione all’amianto e le lavorazioni svolte a bordo di navi della Marina Militare nell’Arsenale di Taranto. L’operaio aveva lavorato per oltre 30 anni con una ditta dell’indotto Arsenale in manutenzioni navali militari venendo, secondo la sentenza, esposto all’amianto». Una sentenza che aprirà il vaso di Pandora delle centinaia di persone che hanno lavorato a Taranto a contatto con la fibra killer.