L’impatto della Cina sulla scena internazionale ricorda l’arrivo del pianeta Melancholia che distrugge la terra nel film omonimo di Lars von Trier. Che il pianeta dovesse arrivare si sapeva con largo anticipo. Che potesse colpire la terra si sospettava, ma si sperava non avvenisse. Quando infine si avvicina a gran velocità verso la nostra società, c’è chi si dispera, e c’è chi si lascia cullare nel dolce fatalismo della depressione, come Kirsten Dunst. Da che parte stiamo noi?
L’avanzamento della Cina-Melancholia nell’ultimo anno è stato impressionante. Tra gli eventi di maggior rilievo, vorrei citare:
- Il rafforzamento della “Falange del Drago”, cioè dei paesi non democratici che godono dell’appoggio cinese, e il cui unico scopo nella vita è dar fastidio all’Occidente. Ricordiamo nell’occasione il sostegno diretto alla Corea del Nord e alla Birmania, e quello un po’ più discreto nei confronti dell’Iran.
- L’invasione cinese dell’Africa, che procede a ritmi inarrestabili. L’Angola per un periodo nel 2010 è diventato il maggior fornitore cinese di petrolio, superando l’Arabia Saudita. Pechino si rifornisce anche da Sudan, Nigeria, Chad, Congo-Brazzaville per citarne alcuni. In cambio, la Cina inonda il continente di dollari, merci e armi. Al 2009, il valore degli scambi bilaterali era di circa 115 miliardi di dollari, e aumentava a ritmi del 40% l’anno. Solo neo primi nove mesi del 2011, ha raggiunto i 122 miliardi. È ancora poco rispetto al livello europeo (431 miliardi nel 2010), ma Melancholia sta accelerando.
- La conquista dello spazio. In novembre la navicella spaziale Shenzhou-8 ha completato la prima missione di collegamento con un modulo orbitante, Tiangong-1. I piani sono di costruire una stazione spaziale senza astronauti entro il 2016, e un’altra abitata entro il 2020. Entro il 2016 dovrebbero essere poi ultimati gli studi per una missione lunare.
- Il progresso militare. Solo quest’anno, il budget delle forze armate è aumentato del 12,7%, mentre alcuni mesi fa la Cina ha mostrato un prototipo per un aereo stealth, e ha acquistato un paio di portaerei usate. In generale, il paese ancora non ha una vera capacità militare su obbiettivi a distanza: non potrebbe organizzare un attacco nello stile americano in Iraq o Afghanistan, per intenderci. Eppure, secondo il report annuale del Pentagono sul potere militare cinese, lentamente sta passando da ambizioni regionali, ad aspirazioni geografiche di ampio raggio.
- Proseguono gli investimenti infrastrutturali di ampia portata, tra dighe, autostrade e reti di treni ad alta velocità.
- Per finire, la Cina ha concluso con il Giappone un importante accordo economico, che consentirà loro di commerciare scambiando direttamente yuan e yen, senza passare per il dollaro. A detta di alcuni, ciò simboleggerebbe il momento finale della presa di coscienza politica di Pechino: il paese sarebbe pronto alla guida del quadrante orientale.
Eppure, tutti questi aspetti di indubbio progresso cinese vengono controbilanciati da altrettanti elementi di dubbio, timidamente espressi dagli analisti internazionali.
- Alla fine, la Cina riesce ad allearsi politicamente solo con regimi dittatoriali, un po’ come l’Italia di Berlusconi. Ho dubbi sul fatto che, nel lungo termine, un’alleanza con posti folli come la Korea del Nord di Kim Jong Un o la Birmania dei militari possa portare un grande dividendo politico. Neanche l’Unione Sovietica dei tempi d’oro è riuscita a ottenere granché dai regimi esotici di Cuba o dalla Cambogia, a parte fugaci dimostrazioni di forza.
- Il modello cinese in Africa ha forti limiti. Gli africani non scalpitano per ripetere le esperienze coloniali terminate negli anni Settanta, e le notizie che giungono sulle condizioni di lavoro nei cantieri a guida cinese sono allucinanti – lo hanno riconosciuto perfino gli inglesi nel 2007, loro che, certamente, in quanto a colonie non hanno da imparare da nessuno.
- L’avanzamento nello spazio è un segnale di capacità tecnica, ma non di solidità economica. Dopo esser stati sulla luna, gli americani si ritrovarono comunque a fare i conti con le crisi degli anni Settanta – così come i sovietici dopo lo Sputnik, lo Sputnik-2 della cagnetta Laika e il Wostok-1 di Gagarin, in pochi anni piombarono nella stagnazione di Brezhnev.
- Anche le ambizioni militari, più che un segnale di forza, potrebbero essere indice di debolezza. È tipico dei regimi all’apice del successo economico: nel dubbio che il progresso possa essere sostenuto solo con i risultati industriali, si cerca di “metterlo al sicuro” corazzandolo di armi.
- Sulla moneta e sull’accordo con il Giappone, ridurrei la portata del cambiamento. In realtà, ciò è avvenuto perché gli scambi si sono intensificati. Il perdurare del passaggio yuan-sollaro-yen anziché un cambio diretto, sarebbe stato come imporre vent’anni fa agli italiani di commerciare con il marco tedesco passando per il dollaro.
Alla fine, il cuore del problema risiede negli investimenti fissi, da alcuni considerati invero l’elemento trainante del sistema cinese. Report degli ultimi mesi hanno mostrato come l’immobiliare sia in pesante recessione in molte zone, mentre ci sono dubbi sul fatto che ulteriori investimenti infrastrutturali possano rivelarsi redditivi in futuro. La società statale che ha sviluppato la rete di treni ad alta velocità ha avuto bisogno di essere ricapitalizzata, mentre il pacchetto di stimolo post-crisi da 586 miliardi di dollari ha scaricato imponenti effetti inflattivi nell’economia. Ci sono stati poi problemi nella capitalizzazione delle banche, e si è scoperto che, a livello locale, l’indebitamento pubblico avrebbe superato il miliardo di dollari, secondo alcuni.
Sembrerebbe, in realtà, che la Cina stia incontrando i limiti dello sviluppo di un modello economico imperniato sulla guida statale. Tale assetto normalmente funziona fino a che sono presenti abbondanti quantità di risorse da sfruttare a poco prezzo, come era il caso in Cina per forza lavoro, immobiliare e materie prime fino a poco tempo fa. Adesso servirebbe un modello più flessibile, in grado di gestire meglio risorse scarse, e lo statalismo cinese non sembra all’altezza del compito. Per ora, nonostante alcuni dati ufficiali, sembra che l’andamento di vendite ed esportazioni cinesi nell’ultima parte dell’anno sia stato inferiore alle previsioni.
Il più grave rischio collegato a un rallentamento economico cinese è rappresentato dal fatto che il governo potrebbe spostare ulteriormente la sua attenzione dall’economia alla sfera politico-militare. Il primo impatto è con la Russia, che negli anni della crisi si è rivolta a Pechino per sostenere la propria industria energetica.
Russia e Cina, poi, stanno giocando la propria partita verso Ovest con uno strisciante sostegno al regime teo-militare iraniano: il confronto di dicembre 2011 sulle esercitazioni militari presso lo Stretto di Hormuz è in realtà un braccio di ferro tra Cina e Stati Uniti, dal cui esito si decideranno non solo gli assetti dell’area, ma anche i rapporti internazionali tra i due apici del continente.
Si va oltre: gli eventi iraniani condizioneranno profondamente l’esito delle rivolte arabe del 2011. È chiaro che le rivoluzioni nascono da un sincero desiderio di libertà da parte di una coraggiosa componente neo-borghese della popolazione (vedasi il saggio “Rock the Casbah”, di Robin Wright), ma era altrettanto palese che le piazze venivano manovrate dalle elite militari e dalle componenti radicali per fini propri. Alla fine, le rivolte hanno funzionato nei paesi sunniti (Tunisia, Libia, Egitto), dove portato a cambiamenti di regime. Nei paesi a guida sunnita, in cui le rivolte sono state fomentate da minoranze sciite, i governanti hanno vacillato, ma sono rimasti al proprio posto. Ciò è dipeso in larga misura dal sostegno dell’Arabia Saudita (sunnita) ai regnanti sunniti o “super-partes”, come l’ alawita Bashar al-Assad in Siria.
Alla fine, l’Iran potrebbe uscire ridimensionato da questo confronto. Il punto è che i paesi sunniti da alcuni anni tendevano verso gli Stati Uniti, con l’eccezione della Libia di Gheddafi, che si era unita al club con estremo ritardo (e per un periodo assai breve, infine). L’Iran non vincerà mai il suo “braccio di ferro”, ma la testardaggine di Teheran è la testardaggine cinese: Pechino non vuole lasciare il mondo arabo in mano all’Occidente, di nuovo.
*Docente di economia e politica presso l’Università di Potsdam e Senior Fellow di bigs-potsdam.org e autore de “La Guerra del Clima – Geopolitica delle Energie Rinnovabili”, Francesco Brioschi Editore
Cambia continente per continuare: