I videogiochi della saga Call of Duty sono sempre dei blockbuster, nella miglior tradizione del soft-power americano. Sono l’equivalente videoludico di un ciclo come Rambo o, più recentemente, di acclamate serie tv quali 24 o West Wing: tutti enormi successi di pubblico, che però veicolano la visione del mondo all’americana. Non a caso un filosofo come Slavoj Žižek ha evidenziato il ruolo della già citata serie 24 nel diffondere quell’ “etica dell’emergenza” tipica dell’America bushista durante la Guerra al terrorismo.
Se Call of Duty non desta ancora l’attenzione dei filosofi, già cattura quella degli analisti finanziari. Il suo penultimo capitolo, Black Ops (termine che nello slang delle spie indica le operazioni ultra-clandestine), ha incassato in pochi mesi più di un miliardo di dollari. L’ultimo episodio della saga, Modern Warfare 3, nei primi 5 giorni di uscita ha superato i 775 milioni di dollari di vendite; e il miliardo di dollari in appena 16 giorni, battendo il kolossal cinematografico Avatar, che aveva impiegato “ben” 17 giorni per raggiungere una somma analoga.
Insomma, non si tratta di giochi per bambini. Come ha sottolineato qualche giorno fa il Financial Times, «il successo di Modern Warfare 3 è una prova della duratura popolarità dei videogiochi “first person shooter” (sparatutto); in 17 anni dal rilascio di Doom, primo titolo della categoria a essere famoso, i “first person shooter” sono diventati un ospite fisso nei computer e in console come PlayStation e Xbox».
Può stupire che videogiochi incentrati su sparatorie, guerre e complotti piacciano tanto. Il segreto della saga di Call of Duty, però, è proprio nella sua epicità sopra le righe: il giocatore interpreta un tipico eroe occidentale (un marine, un agente della Cia etc.) impegnato in missioni tanto disperate quanto gloriose, mentre il mondo attorno a lui corre verso la distruzione, tra palazzi che crollano e carneficine in stile Salvate il soldato Ryan. L’obbiettivo finale è quasi sempre il medesimo: salvare il mondo dai deliri di qualche perfido dittatore e/o terrorista. Anche le ambientazioni sono, di solito, quelle canoniche: il Medio Oriente, la giungla indocinese, la Russia. In Modern Warfare 3, però, a essere sotto scacco è l’Occidente. Un estremista russo, tal Vladimir Makarov, spinge Mosca a dichiarare guerra agli Usa e all’Europa. La marina russa distrugge Manhattan, le capitali europee vengono devastate dalla guerra chimica.
Immaginare però una Russia in forte rotta con l’Occidente, oggi come oggi, non è un mero esercizio di immaginazione: si pensi solo al braccio di ferro tra Mosca e Washington sullo scudo anti-missili europeo; alla guerra russo-georgiana nel 2008 o al grande gelo fra il Cremlino e Londra, colpevole, dal punto di vista russo, di ospitare oligarchi come Berezovsky. Ed è interessante notare che il ritorno sulla scena mondiale della Russia putiniana (ma non ancora del tutto putinizzata, come dimostrano le recenti proteste anti-governative) desti nelle menti degli sceneggiatori americani fantasie di Armageddon geopolitico risalenti ai tempi della Guerra fredda. Ma attenzione a liquidare Modern Warfare 3 come l’ennesima “americanata”: chi ha prodotto il videogioco, la Activision Blizzard, ha sì sede in California; è però il colosso francese dei media Vivendi ad avere il 64% della società, quotata al Nasdaq come tante aziende high-tech (secondo analisti del settore l’Activision rappresenterebbe il 15% dell’utile operativo di Vivendi).
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Modern Warfare 3 prende le mosse da New York, dove le teste di cuoio della Delta Force respingono con la forza della disperazione gli invasori russi. Wall Street è un immenso rogo, i grattacieli collassano, e anche se non si vedono i cavalli dei cosacchi abbeverarsi alle acquasantiere della St Patrick’s Cathedral, i simboli dello spirito americano sono tutti sotto attacco. Da una forza possente, crudele e che tracanna vodka. Ovviamente nel mondo dei videogiochi i russi non fanno sempre i cattivi: in Homefront, sparatutto con trama scritta da John Milius (il regista del film Alba Rossa), sono i nordcoreani a invadere gli States; in Operation Flashpoint: Dragon Rising i nemici prendono ordini dalla Cina, la superpotenza del futuro.
E se è vero che i videogiochi sono la nuova arma del soft power made in Usa, è pure vero che, come il cinema, essi contribuiscono a svelare le paure dell’inconscio collettivo statunitense: su tutte, la terribile consapevolezza che il pianeta è sempre più multipolare e sempre meno americo-centrico. Un’America sola e contro tutti, insomma, che non può contare né sugli alleati europei, né su quelli asiatici. In Modern Warfare 3, una volta conclusa la campagna principale, può dedicarsi a varie missioni speciali, molte delle quali puramente survivaliste: per vincere bisogna affrontare orde di nemici, con l’unico obbiettivo di ammazzare senza farsi ammazzare. È anche possibile dedicarsi anche alla modalità multigiocatore, che rende Modern Warfare 3 potenzialmente perpetuo. Anzi, la punta di diamante della saga Call of Duty è proprio la sua componente online, che consente a chi ha una copia del videogioco di affrontare “colleghi” giocatori da ogni parte del globo: come spesso viene rimarcato, Call of Duty vanta una comunità di 30 milioni di utenti, cioè metà della popolazione italiana.
Nella modalità online il giocatore, una volta scelto l’armamentario del suo soldato, viene catapultato in una delle tante arene di Modern Warfare 3. L’imperativo, naturalmente, è sconfiggere gli altri giocatori, combattendo in solitaria o in squadra con degli amici. In base al tipo di partita selezionata gli obbiettivi però cambiano, con il risultato che ogni match è sempre più duro e imprevedibile. La modalità online esalta al limite il concetto alla base della saga Call of Duty: quello di guerra totale. Un concetto, questo, profondamente radicato nella “mentalità di frontiera” americana. Perché contro un nemico superiore (si tratti di giubbe rosse britanniche o soldati messicani ad Alamo), non si può che combattere sempre e dovunque, con tutte le armi a disposizione. Perfino il super-liberal New York Times, parlando del videogioco, si fa incantare, riconoscendo il fascino viscerale «di vomitare fiumi di bollente piombo virtuale.»
In effetti i combattimenti sono molto realistici, grazie anche a uno stile grafico e a una regia di altissimo livello, quasi da film hollywoodiano. E hollywoodiana è stata anche la campagna marketing: sempre il New York Times ha parlato del «gioco più incessantemente promosso dell’anno» Soldi ben spesi, comunque. La saga di Call of Duty è un brand di successo, che ha dato origine a cappellini e magliette. Ma anche a mouse, tastiere, fumetti e perfino jeep. E se per giocare forse non è indispensabile scorrazzare su un bolide con il marchio del videogioco, delle cuffie ad hoc possono rivelarsi molto utili.
Infatti il comparto sonoro gioca un ruolo importante in Modern Warfare 3, valorizzabile con cuffie apposite. Ad esempio con quelle con microfono Ear Force della società newyorkese Turtle Beach, il giocatore può scegliere se usare una configurazione audio che faccia risaltare le esplosioni, o una che faccia meglio sentire le voci di amici e nemici. Fa una certa impressione poter distinguere, tra il fragore elettronico delle esplosioni e il crepitio virtuale delle mitragliatrici, gli avversari ruggire ordini in qualche lingua dell’est Europa, o in meno esotico dialetto bergamasco. Come racconta a Linkiesta un fan di Modern Warfare 3: «Una volta mi è capitato di combattere contro dei ragazzi tedeschi e turchi. Si erano coalizzati contro la mia squadra, fatta tutta di italiani. Alla fine abbiamo anche perso». Solo in un videogioco può capitare che tedeschi e turchi combattano fianco a fianco per difendere la bandiera americana.