Ha il maggior numero di tesserati fra i dipendenti statali, e su partite come Alitalia e Poste ha giocato e gioca un ruolo fondamentale. Ma per capire la Cisl occorre partire da un legge non molto conosciuta, e del resto l’anno di nascita non aiuta. La legge Mosca (1974) è infatti uno degli “scandali” più rappresentativi del (mal)costume del Belpaese. Le intenzioni del deputato dell’epoca, Giovanni Mosca onorevole milanese del Partito Socialista molto vicino a Ernesto De Martino, erano persino benemerite: voleva risanare la situazione di chi nei decenni successivi al dopoguerra aveva lavorato nei sindacati o nei partiti senza ricevere i contributi.
Solo che, nella migliore tradizione italiana, con gli anni l’eccezione si è trasformata in regola. Bastava una dichiarazione del legale rappresentante di turno e il gioco era fatto: si parla di autisti che avrebbero iniziato a prestare servizio a 12 anni e di dirigenti delle parti sociali che avrebbero difeso i diritti degli operai quando ancora frequentavano le elementari. Ma tant’è. Nei calcoli del legislatore ne avrebbero dovuto usufruire solo poche centinaia di persone e invece alla fine i contributi figurativi, che danno diritto alla pensione, sono toccati quasi a 40 mila fortunati. Alle casse dello Stato questa “manfrina” è costata 25mila miliardi di lire (12,5 miliardi di euro) e tra coloro che ne hanno “approfittato” si annidano i padri della classe dirigente che oggi dice pesta e corna della riforma delle pensioni.
C’erano tanti ex funzionari del Pci, portaborse della Dc e sindacalisti di Cgil, Cils e Uil. Ovvio, non tutti hanno fatto i furbi sugli anni di lavoro effettivamente prestati, ma la gran parte sì. Alla fine il dettaglio di quest’ennesima mini-Casta recita: poco meno di 10 mila beneficiari erano della Cgil (9.368 unità), altri 8 mila dell’ex Pci (8.081) e quasi 4 mila della Dc. Mentre Il partito socialista si difendeva sfiorando la soglia dei 2 mila, decisamente meno della Cisl che, seppur di poco, scavalcava il tetto dei 3 mila. Tra questi, tanto per fare qualche nome, spiccano l’ex presidente del Senato e segretario generale della Cisl, Franco Marini, e l’ex presidente della Camera e leader Cgil, Fausto Bertinotti.
Si dirà: cosa c’entra la legge Mosca con la Cisl di Bonanni? Cosa volete dai dirigenti attuali se una norma del ’74 ha assicurato qualche privilegio anche agli ex cislini? C’entra eccome, perché nella legge Mosca c’è il paradigma di un modo di fare. Quello di un sindacato che negli ultimi lustri si è messo la divisa da riformista solo quando riguardava le materie degli altri. Con Cofferati, Epifani e ora Camusso, impegnati a portare la Cgil sulle barricate, i dirigenti di via Po hanno avuto un’autostrada libera. Gioco facile a mostrarsi dialoganti e moderati e ad assicurarsi un ruolo di cerniera con gli esecutivi di turno. C’è stato il Patto per l’Italia firmato (senza la Cgil) il 5 luglio 2002 con il governo Berlusconi dell’epoca, che per la verità non ha segnato grandi risultati, e soprattutto la più recente riforma del modello contrattuale (salari legati alla produttività e più forza alla contrattazione aziendale). Tutto vero. Ma la storia ci ha insegnato che quando poi si è trattato di difendere le loro rendite di posizione, Pezzotta e poi Bonanni sono diventati intransigenti come pochi.
Il primo congresso della Cisl nel 1951 (fonte: Conquiste del Lavoro)
Prendiamo il caso Alitalia. Non è un mistero per nessuno che alla Cisl la vendita della compagnia di bandiera (tra le aziende con il maggior tasso di sindacalizzazione) ad Air France proprio non andasse giù. Basta ripercorrere i lanci di agenzia dei giorni caldi della trattativa (siamo a cavallo tra il 2007 e il 2008) per rendersene conto. Secondo Bonanni nel governo Prodi dell’epoca c’era qualcuno che stava giocando contro gli interessi nazionali: nel tira e molla con Spinetta (a.d. di Air France) «manca la richiesta di una contropartita, di garanzie minime per i lavoratori e soprattutto non si stanno facendo tutti gli sforzi necessari per mantenere l’italianità dell’azienda».
Peccato che la stessa lungimiranza il buon Raffaele e suoi predecessori non l’avessero mostrata quando hanno tutelato quelle sacche di privilegio che hanno portato Alitalia allo sfacelo. I problemi erano arcinoti: pochi passeggeri, Lufthansa, Iberia e e Tap (portoghese) che fanno più ore di volo e stipendi e benefit di piloti di hostess e assistenti di volo troppo alti rispetto a quelli dei competitor. E i riformisti cosa hanno fatto? Hanno puntato i piedi: guai a toccare turni o retribuzioni della truppa. Certo se l’azienda fosse andata ai francesi (si trattava per una cifra vicina al miliardo e mezzo) sarebbe stato più difficile continuare con quell’andazzo, mentre la fusione con l’AirOne di Toto (abruzzese come il leader Cisl), sponsorizzata da Bonanni, avrebbe consolidato il monopolio di un’unica compagna sulle tratte più importanti (vedi Roma-Milano) che i sindacati avrebbero potuto facilmente “ricattare”.
E così alla fine è prevalsa la linea nazionalista: è arrivata la cordata degli imprenditori coraggiosi (Cai) che ha preso in un colpo solo sia Alitalia che Airone. Siamo nel 2008. Passano pochi mesi, 12 gennaio 2009, ed Air France-Klm acquista il 25% della compagnia italiana per poco più di 300 milioni. Tant’è che la stampa transalpina (Les Echos) ringrazia Berlusconi: ci ha consegnato una compagnia senza debiti (accollati allo Stato) a un quinto del prezzo iniziale. Merci.
Altre settimane, novembre 2009, e Cai cede alla stessa Air France la rete commerciale per la vendita degli spazi riservati alle merci nella stiva degli aerei passeggeri. Mentre nel 2010 l’amministratore delegato Rocco Sabelli arriva ad auspicare una fusione con i francesi per il 2013. Tanto che verrebbe da fare una domanda al segretario della Cisl: caro Bonanni , ma non potevate pensarci? Avreste evitato di mettere sulle spalle dei cittadini i debiti accumulati dalla compagnia in anni di mala gestione.
E dall’Alitalia al pubblico impiego il passo è breve. È il 24 agosto del 2006 e dalle colonne del Corriere della Sera, il giuslavorista Pietro Ichino lancia una proposta destinata a scuotere il felpato mondo dell’amministrazione dello Stato. Il ragionamento era semplice: per risanare i conti pubblici è necessario tagliare la spesa improduttiva, bene, iniziamo dalla Pa. Come? Introducendo degli organismi indipendenti di valutazione per stimare l’efficienza degli uffici pubblici e di chi ci lavora. Lo scopo? Mandare a casa i nullafacenti (sul tema Ichino ha scritto poi un libro) e premiare con retribuzioni più ricche chi invece si adopera per due. Proposta di buon senso. Anche perché le stesse parti sociali sollecitate sul tema ammettono che il problema dei fannulloni esiste eccome, salvo poi trincerarsi dietro ai “no” preventivi quando si tratta di passare dalle parole ai fatti.
La Cisl del resto tiene famiglia: sono 326.180 (dati 2010) gli statali tesserati con il sindacato di via Po (più di qualsiasi altra federazione). E così Bonanni nei giorni successivi alla proposta Ichino non ebbe esitazioni a schierarsi a fianco della Cgil: «Ichino utilizza un luogo comune con frasi trite e ritrite – replicò stizzito il segretario generale – Occorre, invece, un nuovo piano industriale per la pubblica amministrazione». E Gianni Baratta, storico segretario confederale, lo superò a sinistra: «È una provocazione che spero e credo non abbia ispiratori nel governo (allora c’era Prodi ndr). Un atteggiamento di moralizzazione ogni oltre limite che non dà un contributo serio al problema di migliorare l’efficienza dei servizi nella pubblica amministrazione. E poi le purghe appartengono alla cultura bolscevica».
Certo, quella stessa cultura bolscevica che dal ’75 a pochi anni fa ha costretto lo Stato a ripianare per circa 30 miliardi di euro i disastri delle Poste Italiane. Qui, non comandano flotte di pericolosi comunisti ma sono i cislini a farla storicamente da padroni: i dati del 2010 parlano di 68 mila iscritti. Tant’è che nel 2005 il giornalista dell’Espresso Riccardo Bocca rese pubblico una sorta di database delle raccomandazioni. C’erano centinaia di segnalazioni. Che arrivavano, manco a dirlo, dai capoccia dei sindacati. Tra gli altri spuntarono i nomi di Savino Pezzotta, ex segretario generale della Cisl, Nino Sorgi, ex segretario della Slp-Cisl (lavoratori delle poste) e Mario Petitto, l’attuale numero uno.
Del resto basta risalire ai giorni nostri per avere l’ultimo esempio: la partita sull’Ici. La Cisl (ma lo stesso vale anche per Cgil e Uil) non paga l’imposta sulle sue circa 5mila sedi. Lo prevede il decreto legislativo 504 del dicembre ’92 in riferimento: «agli immobili degli enti non commerciali destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive». E infatti Bonanni non si è fatto problemi a ritrovare l’unità con la Cgil per scioperare contro la manovra del governo Monti che reintroduceva l’Ici sulle prime case. Avrà pensato: meglio portarsi avanti, hai visto mai che un domani dovesse toccare pure a noi.
La tessera della Cisl
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Su pensioni e mercato del lavoro la strada ormai è tracciata: il contributivo per tutti da una parte e il contratto unico con la cancellazione dell’articolo 18 dall’altra. La Cgil, dalla riforma Dini del 1995, ha vinto battaglie ma alla fine ha sempre perso le guerre. Da Alitalia a Ferrovie dello Stato, da Fincantieri all’Alfa Romeo, sono tante le occasione perse per il sindacato guidato oggi da Susanna Camusso. Un sindacato che ha scelto di tutelare sopratutto i propri iscritti, in gran parte lavoratori a tempo indeterminato cui mancano pochi anni per arrivare alla pensione e pensionati.