Mentre va definendosi sempre più nettamente la ‘squadra’ del neo-superministro Corrado Passera, cresce parallelamente l’impressione che l’ex Ad di Intesa Sanpaolo abbia già in mente, perlomeno a grandi linee, i principali assi della politica dei trasporti e infrastrutturale del paese. Fra questi, è la vox populi degli ultimi dieci giorni, il placet alla riforma della legge 84/94 (“Riordino della legislazione in materia portuale”) disegnata negli ultimi anni, con consenso bipartisan, dalla commissione trasporti del Senato e sempre cassata da Tremonti per la previsione di una certa “autonomia finanziaria” per le Autorità Portuali (nella forma di un ‘ritorno’ al porto di una quota di tributi proporzionale ai traffici che ciascun porto produce).
Un dettaglio ritenuto indispensabile da chiunque di porti si sia occupato in questi anni, a partire dall’ex Ministro dei Lavori Pubblici del primo Governo Prodi Paolo Costa, oggi presidente dell’Autorità Portuale di Venezia, che abbiamo intervistato anche per approfondire il tema dell’insuccesso italiano nel diventare la piattaforma portuale europea per i flussi di merci provenienti e destinate al continente (leggi qui il pezzo), ottenendone indicazioni che potrebbero risultare utili anche al nuovo ministro.
Quali ritiene siano i principali fattori (carenze infrastrutturali, eccessiva burocrazia, insufficiente coordinamento-volontà politica, etc.) per cui l’Italia non è riuscita in questo obiettivo?
L’Italia sconta ormai da decenni lo scotto di un sistema infrastrutturale sotto-dotato, obsoleto e poco efficiente che deprime la crescita del sistema Paese. La politica infrastrutturale italiana è dagli anni ‘80 legata a obiettivi strategici nazionali rivolti alla connessione del proprio mercato interno e alla connessione del proprio mercato interno con quello europeo. Obiettivi peraltro non ancora raggiunti, al più corretti, ma solo a parole, in risposta alle sollecitazioni europee di definizione delle priorità infrastrutturali.
Oggi il contesto è cambiato. La crescita delle economie emergenti – soprattutto dei Bric – non solo come luoghi di produzione ma anche come mercati dove vendere le merci italiane ed europee impone un aggiornamento degli obiettivi. Dobbiamo puntare in sostanza su quelle opere infrastrutturali in grado di stimolare le esportazioni. Solo in questo modo l’Italia può sfruttare una localizzazione geografica vantaggiosa che garantisce nel collegamento marittimo fra Europa e Far East il minor transit time e le migliori performance ambientali dato che si consuma meno carburante.
Sotto il profilo normativo invece persiste la necessità di una riforma della legge 84/94 che preveda reale autonomia finanziaria per le autorità portuali, al fine di garantire un meccanismo virtuoso di concorrenza tra porti, basato tanto sull’efficienza comparata nel gestire i traffici quanto sulla capacità relativa di effettuare i migliori investimenti nel momento più opportuno. Investimenti che possono e debbono essere in gran parte finanziati da privati e, per la parte di eventuale finanziamento pubblico, con risorse che ogni porto si guadagna, in regime di concorrenza, in proporzione ai traffici che riesce a servire.
Paolo Costa
Quali paesi hanno rappresentato e rappresentano la concorrenza maggiore e perché?
Oggi, teoricamente, i porti sono tutti in concorrenza con tutti. E ciò è vero tanto per i porti di transhipment – Gioia Tauro, Taranto e Cagliari – che soffrono la concorrenza dei porti di della sponda meridionale del Mediterraneo quanto per gli altri porti nazionali che non riescono ad attrarre pienamente il retro mercato di riferimento. Basti pensare che il Porto di Rotterdam considera l’intero Nord Italia come un proprio mercato, non conteso da altri porti concorrenti! Ma, anche rimanendo più vicini, i porti Nord Adriatici italiani sono quotidianamente sottoposti alla concorrenza con i porti sloveni e croati.
La concorrenza può e deve diventare uno stimolo per rendere i porti più italiani efficienti. Ma, se da un lato è necessario implementare le infrastrutture portuali – e questo spetta a noi farlo –, dall’altro lato è evidente che un porto non può mantenere regimi di operatività che distorcerebbero la concorrenza. Per fare un esempio, la procedura di modulazione attuale delle tariffe dei servizi tecnico-nautici produce una distorsione per cui, per ogni nave portacontainer di 42.000 tonnellate di stazza lorda, il costo complessivo di approdo – i dati sono del 2010 – è a Venezia pari a 30.000 euro, a Trieste di 16.500 euro, a Koper di 12.500 euro e a Rijeka di 9.000 euro. Sono cifre che a fine anno comportano una differenza di costi tra un porto italiano e uno croato di quasi 1 milione di euro, che per un servizio diretto dal Far East può fare la differenza.
Che ruolo ha e a quale può aspirare l’Italia nell’intercettare una quota maggiore dei flussi commerciali est-ovest?
L’Italia ha un vantaggio competitivo dato dalla centralità geografica. Spetta al sistema trasportistico e logistico italiano il compito di mettere le imprese italiane in condizione di raggiungere – o farsi raggiungere – facilmente i mercati sui quali possono e devono competere.
Tale risultato si ottiene solo se il sistema portuale italiano diventa un’alternativa valida rispetto ai maggiori competitors europei. È quindi necessario che i porti italiani compiano un salto di scala tale da riuscire ad affermarsi quali protagonisti nell’intermediazione dei traffici globali. Un salto di scala che oggi non è alla portata di nessun singolo porto italiano. La soluzione che è stata adottata nell’Alto Adriatico è quella di considerare i porti di Ravenna, Venezia, Trieste, Capodistria e Fiume quali un unico sistema che coopera nella promozione internazionale e compete una volta catturati i traffici.
Quali gli interventi (giuridici, infrastrutturali, operativi, etc.) più urgenti in questo senso?
Oltre alla succitata autonomia finanziaria, è necessario un coordinamento efficiente delle operazioni portuali. Per fare un esempio, quando qualcuno viene a verificare se gli conviene sbarcare a Venezia prodotti ortofrutticoli può convincersi a farlo perché trova le strutture e i servizi di sbarco, di stoccaggio, ma anche di inoltro con autotrasporti o treni, di sua soddisfazione; ma se poi il servizio fito-sanitario gli dice che il sabato o la domenica non ha personale o che può coprire il servizio solo poche ore al giorno, l’efficienza in banchina e nei magazzini o nell’intera catena logistica si rivela del tutto inutile. E ciò vale, con sfumature diverse, in ogni scalo italiano.
Per quanto riguarda le infrastrutture fisiche da realizzare ritengo urgente valutare l’inquadramento internazionale dei sistemi portuali italiani. Chi come me continua a guardare periodicamente cosa succede a Bruxelles, avrà certamente preso atto dell’evoluzione dei desiderata europei circa la configurazione del sistema infrastrutturale di trasporto dell’Unione e dei paesi viciniori da realizzare entro il 2020-2030. Desiderata che rispondono alle previsione future fortemente ancorate alla progressiva valorizzazione delle connessioni con l’Europa centro orientale e tra questa e l’Estremo oriente.
Ci si può accorgere infatti che, passando dal piano post-Delors del 1994 al piano De Palacio del 2004 fino a quello in discussione oggi, c’è stato un progressivo spostamento delle attenzioni dai singoli mercati nazionali al mercato unico europeo – peraltro in via di ulteriore allargamento ad est —, al mercato mondiale da raggiungere via porti ed aeroporti.
Se è vero che dobbiamo aiutare la nostra economia ad esportare ed importare merci in tutto il mondo, è altrettanto vero che dobbiamo innanzitutto investire in collegamenti da “ultimo miglio” fra i porti rilevanti (quelli di interesse anche europeo) e la rete infrastrutturale europea essenziale. È a questi modesti interventi infrastrutturali di collegamento tra rete Ten-T e porti (e lo stesso dovrebbe valere per il traffico passeggeri per il collegamento tra rete Ten-T e aeroporti di interesse europeo) che dovremmo riservare la priorità assoluta, è lì che devono andare le poche risorse che abbiamo.