La nuova Google non parlerà italiano. L’ultimo tentativo di sviluppare l’industria del venture capital attraverso il partenariato tra pubblico e privato è sfumato lo scorso febbraio con l’approvazione del Milleproroghe, che ha prosciugato la dotazione del Fondo per la finanza d’impresa tagliando quella dei ministeri. Lo strumento ha avuto un iter piuttosto travagliato: nato con la Finanziaria del 2000 (vedi art. 103 e 106 della legge 388/2000) ma operativo dal 2005, in origine avrebbe dovuto utilizzare i 200 milioni di euro derivanti dall’asta Umts, le reti di telefonia di seconda generazione, per aiutare le Pmi italiane a crescere e internazionalizzarsi.
La beffa è che parte dei 78 milioni di euro previsti per il 2011, come si legge all’art. 3 comma c del decreto legge 225 del 2010 erano già stati impegnati dal ministero dello Sviluppo economico, ma una circolare seguita al dl ne ha ordinato la sospensione. Una situazione che ha creato un duplice danno: alle imprese beneficiarie, che si sono viste sottrarre un finanziamento già approvato nei mesi precedenti, e alle società di venture capital, costrette a rivedere i propri business plan alla luce del mancato impegno pubblico.
Il regolamento del Fondo, approvato nell’aprile del 2010, concedeva a banche, intermediari e Sgr la possibilità di ricevere un anticipo pari al 50% del costo di acquisizione delle partecipazioni di minoranza in Pmi innovative e di recente costituzione, per favorirne l’accesso al capitale di rischio. In pratica, lo Stato, con un investimento massimo di due milioni di euro per azienda, raddoppiava le risorse immesse dai privati per sviluppare le potenzialità delle start-up. Certo, se andava male, a pagare erano tutti i cittadini italiani, ma se la scommessa si rivelava azzeccata, la plusvalenza per la parte di sua competenza finiva dritta nelle casse dello Stato.
Fortunatamente, la cancellazione del supporto pubblico non ha avuto un impatto sul comparto a livello industriale: i dati dell’Aifi, l’associazione italiana del private equity e venture capital, evidenziano al primo semestre 2011 159 nuovi deal per un valore totale di 1,5 miliardi di euro, con un incremento del 176% rispetto al primo semestre 2010. Tuttavia, l’ammanco di risorse si è fatto sentire non poco nei fondi che avevano pianificato molte operazioni con la partnership del ministero ora guidato da Corrado Passera.
«Che i fondi siano destinati ad altro è nell’ordine delle cose se si devono reperire delle risorse», dice a Linkiesta Claudio Giuliano, partner di Innogest Sgr, il maggiore fondo di venture capital italiano con una “stazza” di 80 milioni di euro, che denuncia: «è però inaccettabile che la manovra abbia tagliato fondi già deliberati nei sei mesi precedenti dal preposto comitato ministeriale». «Negli anni passati abbiamo utilizzato in totale 20 milioni di euro per finanziare 8 società, nel settore tecnologico e biomedicale contando sulle risorse del fondo 388. Alcune le abbiamo dovute abbandonare, altre le abbiamo finanziate autonomamente», spiega ancora Giuliano, che evidenzia: «uno dei rischi del venture capital è di non riuscire a supportare fino in fondo una società, quindi a volte i fondi italiani, che non hanno certo la dimensione di quelli inglesi o americani, spesso decidono di non imbarcarsi in un percorso rischioso. Invece, con un partner che coinveste, come era il caso del partner pubblico della misura 388, almeno questo rischio finanziario si riduce moltissimo. Spero che il nuovo Governo riconsideri la misura 388, analizzando la sua capacità di moltiplicare le risorse pubbliche».
Dal Mediocredito centrale, che si occupava della gestione di questi fondi per conto del dicastero di via Veneto, fanno sapere di aver scritto a Corrado Passera per segnalare il depauperamento di risorse di uno strumento ora non più in grado di operare. Fonti interne al ministero hanno invece risposto di non essere a conoscenza di azioni per tornare sulla questione, nonostante a suo tempo i vertici del ministero retto allora da Paolo Romani abbiano fatto presente l’importanza del provvedimento a via XX Settembre.
L’ammontare delle operazioni assegnate nell’arco di cinque anni non è chiaro, alcuni parlano di 20 milioni, altri di 40 milioni di euro su 200 totali. Secondo quanto emerge da una ricerca conoscitiva condotta dalla Commissione cultura della Camera, in Italia gli investimenti in innovazione sono fermi all’1,1% del Pil, con il finanziamento pubblico fermo allo 0,56% del Pil, a fronte di una media europea al 2 per cento. E anche quando i soldi ci sono, non vengono spesi. Per questo la nuova Google parlerà inglese, o al limite mandarino.