Firenze come Rosarno. Anche lì chi sparò fu definito “un pazzo”

Firenze come Rosarno. Anche lì chi sparò fu definito “un pazzo”

Rosarno, dicembre 2008. “L’uomo che ha sparato è un balordo”. Firenze, dicembre 2011. Il killer di Samb Modou e Diop Mor? “Un pazzo”. Tre anni fa in Calabria un rapinatore – Andrea Fortugno – ferì alle gambe alcuni raccoglitori di arance africani che tornavano dai campi nei pressi di Rosarno. Voleva derubare uomini talmente poveri da camminare con le ciabatte infradito nonostante il freddo invernale. Tutti commentarono: “La ‘ndrangheta non fa queste cose. Non può che essere uno sbandato”. La comunità africana andò a testimoniare in massa e descrisse ai carabinieri il feritore. “Hanno dimostrato un senso dello Stato superiore a quello degli italiani”, commentò il capitano Boracchia. Fu uno strappo epocale in un territorio dove cose simili non si erano mai viste.

Firenze è molto più vicina a Rosarno di quanto si possa pensare. Anche in Calabria il clima d’odio era stato preparato dai gruppi estremisti (“Una città invasa da extracomunitari”, si leggeva sul sito de “La Destra” nel 2008). “Se non fosse stato un razzista avrebbe sparato anche ai bianchi”, hanno detto i senegalesi subito dopo la strage fiorentina del 13 dicembre. “Se non è razzismo, perché sparano solo ai neri?”, dissero i ragazzi africani feriti in Calabria nel gennaio 2010. Nuovi colpi d’arma da fuoco avevano colpito i braccianti stranieri nonostante la rivolta della stagione precedente. Questa volta la ribellione fu violenta, così come la reazione delle squadre armate di rosarnesi.

Gli africani avevano messo in discussione un intero sistema di potere. “L’imperio mafioso parte dalle campagne e arriva nei mercati”, dice da anni – in solitudine – Giuseppe Lavorato, ex sindaco antimafia di Rosarno. “Negli anni ‘70 la ‘ndrangheta ha allontanato dai nostri paesi i commercianti che pagavano il prodotto a un prezzo remunerativo, per rimanere sola acquirente e imporre il proprio basso prezzo”. La sua solitaria denuncia trova ora conferma negli atti delle operazioni dei magistrati di Reggio Calabria. Dal conferimento delle arance al confezionamento, dalla plastica al cartone, dalle pompe di benzina al trasporto su gomma tutta la filiera era sotto controllo. E i migranti sono stati gli unici a ribellarsi.

L’eco dei fatti di Rosarno arrivò in tutto il mondo. Ma pochi notarono lo striscione “Fortugno libero” appeso di fronte al municipio circondato dai gruppi violenti. “È innocente”, dissero i suoi parenti ai giornalisti. “La colpa è degli africani: se non lo avessero denunciato non starebbe in carcere”. Dopo le inchieste della magistratura “All clean” e “All inside” sappiamo che Fortugno non era un balordo qualunque, né un semplice rapinatore. Si tratta di uno dei principali killer della ‘ndrina Pesce, incaricato di azioni punitive nei locali di Milano.

Il primo è alto un metro e novanta. Il secondo è detto “u nanu”, ma di cognome fa Pesce. Stanno uscendo da un locale milanese. Fortugno avrebbe rubato 380 euro dalla borsa della compagna di un certo Flachin, che reagisce malmenando furiosamente Pesce. Lo schiaffeggia, lo insulta e recupera il denaro. Apparentemente finisce lì. Ma si tratta di “una vicenda potenzialmente distruttiva della auctoritas mafiosa”, annotano i magistrati. Non siamo però nella Piana di Gioia Tauro, ma nel cuore di Milano. I rosarnesi si comportano come fossero a casa propria. Rubano, litigano, offendono. E meditano vendetta, nella maniera più plateale possibile.

“Minchia, il primo che mi rompe i coglioni nella strada con la macchina lo sparo!”, dice Francesco Pesce. “Vedi che ci arrestano, finiscila!”, risponde Fortugno. “Adesso mi sento sicuro! Ne affronto cento con una mano”, ribadisce Pesce. Hanno appena recuperato una pistola e stanno andando verso l’Hollywood, il famoso locale milanese frequentato da vip e calciatori. Vogliono vendicare l’affronto con un omicidio: “Sai cosa facciamo? Andiamo là al locale e gli mettiamo la pistola in bocca davanti a tutti. A che ora apre l’Hollywood?”. I carabinieri di Milano hanno posto una microspia sulla Punto sulla quale si muovono i due. Li controllano tramite Gps. Quando ne comprendono le intenzioni, intervengono. Si tratta di un episodio inserito negli atti dell’operazione “All Inside 2”. Siamo nel 2006. La pistola (“Bella, ce l’avevo una di queste, la stessa!”) proviene da un complice impiegato nel locale come addetto alla sicurezza.

Non è casuale quindi, a parere del Gip, che appena qualche minuto dopo il fatto, la reazione di Pesce e Fortugno si sia rivolta contro il gestore del locale. I due – insieme ad altri soggetti dall’accento calabrese – pretendono l’identità dell’aggressore. Minacciano di dar fuoco al locale, che peraltro è un “privè” per scambisti e quindi tutti hanno la tessera d’ingresso.

Il gestore, chiaramente intimidito dalle minacce dei calabresi, non solo fornisce loro quanto richiesto (rivelerà poi ai carabinieri di non essere affatto sicuro che il nome fornito appartenesse effettivamente all’energumeno che aveva malmenato il Pesce, infatti era errato), ma acconsentì pure alla pretesa dei calabresi di risarcire il “danno subito”, tant’è che gli versò 400 euro. Ovvero 20 in più rispetto a quelli portategli via (ma che lui e Fortugno avevano precedentemente rubato).

Può sembrare un episodio isolato, ma si tratta dell’ennesima prova del totale controllo esercitato dalla criminalità calabrese su determinati ambienti di Milano. Gli stessi soggetti costringevano alcuni venditori ambulanti di panini al pagamento del pizzo per un totale di settemila euro. Sicuramente non è la ragione economica a causare queste forme estorsive (parliamo dei clan che monopolizzano l’import della coca dal Sud America), ma il desiderio di controllare il territorio lombardo con le stesse modalità con cui si domina quello di casa propria. Non abbiamo finora registrato tracce di ribellione da parte dei milanesi. Gli africani, invece, hanno reagito diversamente. 

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