L’ articolo di Jacopo Barigazzi apparso su Linkiesta del 12 dicembre 2011 apre uno squarcio importante sui movimenti sociali che hanno luogo negli Usa. “Occupy Wall Street” è un fenomeno di estremo interesse, profondamente diverso da simili fenomeni europei e anche da molti dei processi di partecipazione politica e di mobilitazione collettiva che si sono succeduti negli Usa dalla metà dell’Ottocento a oggi. Innanzi tutto va sottolineato che il contesto in cui esso si manifesta è quello di una crisi economica che continuerà ancora per molti anni.
A parer mio “Occupy Wall Street” prepara l’avvento in forme nuove della reazione della società alla disgregazione di un capitalismo iper-finanziarizzato che è all’origine profonda della crisi. Il movimento sta assumendo proporzioni sempre più vaste. A esso vorrei dedicare attenzione perché credo sia un esempio importante del principio speranza che è possibile inverare anche oggi. Recentemente Ben Bernanke ha detto: «Non ho nulla da obiettare a questi giovani e riconosco come vere le ragioni della loro protesta (contro le banche)».
In questa frase c’è tutta la distanza che esiste tra il movimento nord americano dei disoccupati e quelli che si sono sviluppati in Europa e nel corso delle cosiddette primavere arabe. Questi ultimi movimenti, infatti, sono soprattutto mobilitazioni collettive dei figli delle classi medie, altamente secolarizzati e sostenuti dalla rete di sostegno delle famiglie. La caratteristica di questi movimenti è l’isolamento sociale: i lavoratori occupati non se ne interessano perché la densità sociale e morale tra i ceti e le classi europee e nordafricane è molto bassa.
Solo le organizzazioni religiose, cristiane o islamiche che siano, realizzano una saldatura tra i mondi di chi ha e chi non ha un lavoro: ma è benevolente, filantropica, mai politica. Un esempio? Nei moti egiziani le piazze erano piene di classe media laica. Le organizzazioni che si sono presentate alla lotta politica elettorale, e che sono risultate in sostanze vittoriose, sono invece in maggioranza islamiche, anche se non tutte fondamentaliste, ma tutte popolari e proletarie o sotto-proletarie quanto a base sociale.
Gli Stati Uniti sono invece una società molto densa e coesa. In primo luogo per il patriottismo e per l’orgoglio di essere cittadini nord americani. In secondo luogo perchè lo spirito associativo è ancora ben vivo e presente. Per questo il modo in cui si sta lottando contro la disoccupazione e lo strapotere finanziario in Usa deve divenire un punto di riferimento per tutti coloro che vogliono combattere questa malattia mortale del capitalismo. Il movimento dei disoccupati nordamericani si è ora diffuso in molte altre città. Città a grande tradizione operaia come Chicago, o liberal come Los Angeles; ma non mancano manifestazioni e movimenti anche nello sperduto Ohio o nello Iowa. Il segreto della persistenza e della diffusività risiede nel fatto che immediatamente il sindacato americano, l’Afl-Cio (America’s union movement), e i lavoratori occupati, hanno sposato la protesta.
L’hanno fatto in diversi modi, ma soprattutto fondando “Working America”, un’organizzazione che offre aiuti economici ai disoccupati, organizza mense e distribuisce pacchi alimentari, assiste le famiglie a cui sono tagliate la luce, l’acqua, il gas, si occupa dell’assistenza infantile, garantisce un’assistenza medica e legale. E questo perché, a differenza dei casi europei che ricordavo prima, gli “indignados” Usa sono poveri, senza nessun aiuto famigliare e sono bianchi, neri e latinos.
I sindacati organizzano dal basso, con i loro militanti occupati e disoccupati, un vasto welfare che non discende dall’alto in forma statalistica. Negli Usa vi sono oggi 14, 5 milioni di disoccupati, più che nel tempo della Grande Depressione del 1929. A questi vanno aggiunti 9,1 milioni di sotto occupati e due milioni di lavoratori “scoraggiati”, ossia che non cercano più lavoro per disperazione: il tutto fa 25, 8 milioni di persone.
Ebbene, rapidamente gli “indignados” stanno divenendo un vero e proprio movimento di massa organizzato che ha cinque obiettivi, di recente sintetizzati dal presidente dell’Afl-Cio Richard Trumka:
- Estendere ancora per 12 mesi gli aiuti di stato per le famiglie che sono state colpite dalle bancarotte bancarie, dai mutui subprime, dal fallimento delle imprese;
- Intraprendere un programma di opere pubbliche per ricostruire le scuole, le strade e i sistemi energetici, investendo tre trilioni di dollari;
- Valorizzare con l’azione sociale dal basso le comunità locali, per far fronte alle esigenze immediate dei poveri e dei disoccupati;
- Creare sviluppo locale, ossia come suona lo slogan: “ find job in our comunity”;
- Espandere il sistema delle banche cooperative così da ridare credito alle piccole e medie imprese: “If small business can get credit, they will create job”(enfatizzo questo punto, naturalmente).
Sembra il programma elettorale di un partito d’opposizione e invece è il frutto di migliaia e migliaia di riunioni che hanno visto impegnati in tutto il Nord America appartenenti al popolo, alle classi medie, agli intellettuali. Ecco cosa si intende quando si parla di coesione sociale: non di eguaglianza, ma di lotta contro la disuguaglianza, perché rinasce il senso di giustizia: ovvero dal pantano della disoccupazione nascono i fiori della speranza.
Ecco che il principio della banca cooperativa emerge da un riferimento pragmatico, non teorico, al tessuto sociale storico del movimento operaio nord americano e soprattutto da quello delle lotte di liberazione dei neri. Essi furono i primi a fondare le cooperative bancarie e le mutue assicurative per reagire alla discriminazione che li colpiva anche nel plesso della circolazione del capitale e dell’assistenza che l’ assicurazione – sulla base del risparmio – dona alle classi più umili della società.
Ora i poveri nordamericani fanno proprio una parola d’ordine un tempo tipica dei movimenti di liberazione nera e poi dei farmer più poveri, unitamente agli operai di fede socialista e comunista (sempre una esigua minoranza in Usa). Ma la banca di cui Jacopo Barigazzi parla nel suo articolo e ch’egli assimila un po’ troppo velocemente alle nostre italiche banche popolari, non è né una cooperative union di origine nord americana e canadese (non dimentichiamo che il sistema bancario canadese è caratterizzato dalla presenza della più grande banca cooperative del mondo, la Societé des Jardins e che tale presenza ha salvato il Canada dalla crisi finanziaria “autoctona”!), né una sorta di banca di micro- credito. È un confuso progetto che assimila i principi del mondo cooperativo (voto per capita, limiti al possesso azionario, elezione meritocratica dei dirigenti, reinvestimento dei profitti secondo regole intergenerazionali e non individualistiche, rifiuto degli aiuti statali e massima attenzione ai territori d’ insediamento, educazione dei soci e divieto della concorrenza inter-cooperativa) alla mitologia iper-democraticistica tipica di un movimento di massa che vuole lottare contro una disuguaglianza dilacerante e che sottovaluta – nella sua ispirazione – la necessità di darsi regole precise e cogenti come quelle che scaturiscono sia dai Probi Pionier di Rochalde sia dal cuore della cultura à la Raffaisen: il Regno Unito e la Germania sono i grandi cuori, con l’ Italia e la Francia, del cooperativismo e del mutualismo.
In Nord America la tradizione cooperativa è stata “importata” dalle Chiese ed agli immigrati europei. Ciò che conta sottolineare è che non si è spenta; ma si è divisa, di fatto, all’ombra delle chiome dell’albero dell’economia morale in diversi rivoli tra di loro spesso non comunicanti. E ciò ha voluto dire debolezza e isolamento dei movimenti cooperativisti. In ogni caso all’origine di essi vi sono o le fedi religiose o le ideologie socialiste di varia natura, dal gildismo fabiano al riformismo italiano e inglese. Il carattere del movimento nordamericano, se vogliamo tratteggiarlo in termini europei, e ce ne scusiamo, ma la brevità è d’ obbligo, è più anarco-sindacalista che socialista o cristiano sociale: per questo il proclama di “Occupy Wall Street” fatica a integrarsi con i principi di una sana ed efficace ed efficiente cultura cooperativa. Ma non per questo occorre evocare Fiorani e compagnia: non spariamo sul pianista. È debole e malaticcio, ma può guarire, deve guarire.
E poi: non vi è nulla di perfetto, né la democrazia, né, tanto meno – e di questi tempi solo gli stupidi non se ne accorgono – il mercato, né lo stato e la politica. Come pretendere che lo sia un movimento così originale, composito, che oscilla tra spontaneismo creativo e organizzazione sindacale federativa e di mestiere come quella dell’Afl-Cio? L’aspirazione a una banca non capitalistica è non solo legittima , ma è una conferma che il capitalismo dilagante e dispiegato può essere sostituito con un capitalismo controllato dai movimenti sociali – non dallo stato – e temperato dalla comunità e quindi da organizzazioni fondate sull’allocazione dei diritti di proprietà di natura non capitalistica. In fondo la riflessione più avanzata su questo tema non a caso giunge ora dagli Usa, con Hansam e la Ostrom. Non vi è da stupirsi che anche sul terreno finanziario emergano proposte anti-capitalistiche o a-capitalistiche come quelle annunciate dal movimento di massa nord americano. È la prova, in ogni caso, che di capitalismo si può non morire.